Magia della comparazione

Jonathan Z. Smith, Magie de la comparaison. Et autres études d’histoire des religions (« Histoire des religions », 1), éds. D. Barbu et N. Meylan, Préface de P. Borgeaud, Genève, Labor et Fides, 2014, 200 pp.

La figura di Jonathan Z. Smith non dovrebbe necessitare di presentazioni. Nato e cresciuto a Manhattan, dopo studi di agraria e botanica e di filosofia (B.A. presso l’Haverford College, Pennsylvania, 1960), Smith fu il primo a conseguire un Ph.D. in Storia delle religioni a Yale (nel 1969, con tesi di dottorato sul metodo comparativo di Frazer). La sua folgorante carriera di docente e studioso di religioni comincia con un piccolo incarico presso il Dartmouth College, nel New Hampshire (1965-1966), dove Smith stringe amicizia con un giovane Jacob Neusner; prosegue presso l’Università della California a Santa Barbara (1966-1968), dove avviene l’incontro fatale con Mircea Eliade (di cui si considererà sempre un allievo, seppure «eretico»); e si consolida a Chicago, dove lo studioso darà vita a un corso di Introduzione alle religioni che lo terrà impegnato per più di quarant’anni (dal 1968 al 2011).

Nel campo degli studi religiosi e antropologici, il nome di Smith è universalmente noto per alcune raccolte di saggi, come Map Is Not Territory: Studies in the History of Religions (Leiden, Brill, 1978), Imagining Religion: From Babylon to Jonestown (Chicago, The University of Chicago Press, 1982) e Relating Religion: Essays in the Study of Religion (Chicago – London, The University of Chicago Press, 2004), ma anche per due volumi che hanno contribuito a una radicale ridefinizione dei confini teorici – e della pratica stessa – del comparativismo religioso: To Take Place: Toward Theory in Ritual (Chicago – London, The University of Chicago Press, 1987) e Drudgery Divine: On the Comparison of Early Christianities and the Religions of Late Antiquity (Chicago – London, The University of Chicago Press, 1990).

I lavori di Smith, che si sono concentrati soprattutto su questioni legate al problema della comparazione e dello studio critico dei fenomeni religiosi (con una particolare attenzione nei confronti dei sistemi religiosi di età ellenistica), hanno influenzato intere generazioni di studiosi, e sono oggi alla base di un rinnovamento metodologico che coinvolge direttamente anche gli studi sul cristianesimo primitivo, come testimoniano gli incontri del gruppo di ricerca su “Ancient Myths and Modern Theories of Christian Origins”, che dal 2000 si riunisce nel corso dei convegni annuali della Society of Biblical Literature (tra i membri del gruppo, oltre a Smith, figurano personalità di primo piano nel campo degli studi sulle origini cristiane, come William E. Arnal, Richard S. Ascough, John S. Kloppenborg, Burton L. Mack e Stanley K. Stowers; alcune ricerche prodotte dal gruppo sono confluite negli importanti volumi curati da R. Cameron e M.P. Miller, Redescribing Christian Origins, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2004, e Redescribing Paul and the Corinthians, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2011).

Come chi scrive ha già avuto modo di osservare altrove (si veda L. Walt, “L’origine delle origini. Jonathan Z. Smith e la storia naturale del cristianesimo”, in Annali di Storia dell’Esegesi 32/1 [2015] 199-216), è sorprendente constatare quanto la produzione scientifica di Smith, al di qua dell’oceano e soprattutto in area non anglofona, non abbia ancora ricevuto un’adeguata ricezione critica. Nel nostro Paese, per esempio, sono troppo pochi gli studiosi che si siano realmente confrontati con le sue proposte teoriche (si possono fare i nomi di Giovanni Filoramo e Mauro Pesce), e sarebbe interessante soffermarsi sui motivi che hanno spinto anche un autore ed editore di peso come Roberto Calasso, in un’intervista concessa al giornalista francese Alain Jaubert (trad. it. in V. Cecchetti, Roberto Calasso, Firenze, Cadmo, 2006, 215 ss.), a liquidare frettolosamente il contributo di Smith (in quel caso, su un tema cruciale come quello del sacrificio).

In effetti, almeno fino alla pubblicazione del volume che intendiamo presentare ora, si era potuta registrare in Europa la traduzione di un unico saggio di Smith (“The Domestication of Sacrifice”), all’interno della versione francese di Violent Origins: Walter Burkert, René Girard, and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation (ed. R.G. Hamerton-Kelly, Stanford, Stanford University Press, 1987). Vale la pena di notare, tuttavia, come l’editore francese si fosse risolto a presentare questo volume collettivo sotto il solo nome di Girard (Sanglantes origines, Paris, Flammarion, 2011), lasciando intendere il carattere meno rilevante, o quantomeno subordinato, degli altri interventi presenti in esso: il libro, in tal modo, venne fatto passare in Francia come una sorta di tavola rotonda sulle tesi di Girard, laddove in origine esso raccoglieva i materiali di un colloquio interdisciplinare attorno ai temi della violenza, del mito e del rito (il colloquio, organizzato da B.L. Mack, si tenne a Pajaro Dunes, California, nell’autunno del 1983).

Tanto più meritoria, da questo punto di vista, appare la decisione di rendere finalmente disponibili a un pubblico di lingua francese alcuni saggi scelti di Smith, che coprono un arco temporale che va dal 1974 al 2004, e che contribuiscono a formare il primo volume di una collana (« Histoire des religions », per le edizioni Labor et Fides) i cui sviluppi si annunciano già promettenti. L’operazione si deve all’intelligenza di due giovani studiosi, facenti capo a quella che possiamo ormai definire come scuola ginevrina di storia delle religioni, e che trova oggi espressione nella rivista Asdiwal (attiva dal 2006): Daniel Barbu, maître assistant presso l’Institut für Judaistik dell’Università di Berna, e Nicolas Meylan, maître assistant presso l’IRCM dell’Università di Losanna. I due curatori si sono occupati personalmente della selezione e traduzione dei vari saggi smithiani, e li hanno fatti precedere da una limpida introduzione (« Avant-Propos », 11-20). La premessa del volume (« Préface », 7-10), non a caso, è stata invece affidata alla penna di Philippe Borgeaud, professore emerito di Storia delle religioni a Ginevra e già allievo in giovinezza di Smith (ne seguì i corsi a Chicago, nell’a.a. 1972-1973).

Considerata l’ampiezza e la versatilità degli interessi di ricerca di Smith, non deve essere stato semplice operare una scelta bibliografica, ma bisogna ammettere che ai due curatori l’impresa è riuscita benissimo. Il risultato è un volume agile e compatto, che raccoglie sette interventi tra i più importanti (e dibattuti) di Smith, tutti accomunati dal tema della comparazione storico-religiosa e della definizione teorica dell’oggetto di studio “religione”.

L’antologia si apre così con il testo « Imaginer la religion » (23-27), che non corrisponde propriamente a un articolo di Smith, ma riproduce alcuni passaggi dell’introduzione di Imagining Religion (1982, xi-xiii). Vi fanno seguito, nell’ordine: « Religion, religions, religieux », testo-chiave che ripercorre la storia moderna delle categorie concettuali collegate al termine “religione” (29-52; or. “Religion, Religions, Religious”, in M. Taylor, ed., Critical Terms for Religious Studies, Chicago – London, The University of Chicago Press, 1998, 269-284; ora anche in Smith, Relating Religion, 179-196); « Magie de la comparaison », una rassegna critica delle varie modalità attraverso le quali è possibile pensare (e ri-pensare) la comparazione storico-religiosa (53-80; or. “In Comparison a Magic Dwells”, in Smith, Imagining Religion, 19-35); « Ici, là, où que ce soit », geniale tentativo di riclassificare i sistemi religiosi del Mediterraneo tardo-antico attraverso un’analisi del loro rapporto con gli spazi (81-101; or. “Here, There, and Anywhere”, in S.B. Noegel, J. Walker, B.M. Wheeler, eds., Prayer, Magic, and the Stars in the Ancient Late Antique World, University Park, Pennsylvania State University Press, 2003, 21-36; ora anche in Smith, Relating Religion, 323-339); « La topographie du sacré », sulla genesi storica, ma anche sugli usi e gli abusi, dell’ambigua categoria di “sacro”, a partire da un’analisi della trattazione ormai classica di Durkheim (103-121; or. “The Topography of the Sacred”, in Smith, Relating Religion, 101-116); « Une question de classe », sulla necessità e sui limiti dell’elaborazione di una classificazione scientifica delle religioni (123-146; or. “A Matter of Class: Taxonomies of Religion”, in Harvard Theological Review 89/4 [1996] 387-403; ora anche in Smith, Relating Religion, 160-178); e infine « Une carte n’est pas le territoire », grandioso appello a una riformulazione radicale delle categorie analitiche utilizzate per lo studio scientifico della religione (147-173; or. “Map Is Not Territory”, testo di una lezione inaugurale tenuta a Chicago nel maggio 1974, poi ripreso in Smith, Map Is Not Territory, 289-309).

A chiudere il volume, come bonus track in una compilation di pezzi classici (e trattandosi di Smith, non vi faremmo torto a considerare il tutto come un disco jazz), è una preziosa intervista rilasciata dall’autore a Philippe Bornet, nell’aprile del 2010, « Jonathan Z. Smith par lui-même » (175-195; versione riveduta di un testo apparso originariamente in Asdiwal 6 [2011] 23-37). Come è già accaduto in altre occasioni (si vedano p.es. S. Sinhababu, “Interview with J.Z. Smith”, in Chicago Maroon, 2 giugno 2008; e T. Pearson et al., “The Devil in Mr. Smith: A Conversation with Jonathan Z. Smith”, in Teaching Theology & Religion 17/1 [2014] 61-77), anche qui è il dialogo a briglia sciolta, nella dimensione dell’oralità, a restituirci un’immagine più completa e profonda dello studioso (oltre che dell’uomo) Smith.

Al di là degli inevitabili aneddoti, pure utilissimi a ricostruire il clima intellettuale in cui Smith si è formato e si è poi trovato ad agire negli USA, la lettura di questa intervista si rivela preziosa anche per la comprensione del metodo e dello stile di ricerca perseguiti dall’autore (un metodo fondamentalmente intrecciato all’enorme passione di Smith per l’insegnamento, come dimostrano i saggi recentemente raccolti nel volume On Teaching Religion, ed. C.I. Lehrich, Oxford, Oxford University Press, 2013), dei suoi autori e problemi di riferimento, come pure delle sue opinioni sullo stato di salute delle discipline storico-religiose. Decisamente interessante, per esempio, è la domanda che viene posta allo studioso sulle tendenze attuali della ricerca, cui Smith risponde indicando tre mutamenti epocali cui staremmo assistendo in questi anni, specialmente in ambiente statunitense (ma con ovvie ripercussioni a livello internazionale).

In primo luogo, avremmo «il passaggio dallo studio delle religioni, al plurale, allo studio della religione, al singolare»: un passaggio non privo di controindicazioni e di qualche incidente di percorso. «In effetti – avverte Smith con una certa amarezza – sono abbastanza vecchio per inquietarmi del fatto che oggi è possibile ottenere un dottorato in teoria critica della religione senza aver mai studiato alcuna religione. […] E cominciamo a vederne gli effetti: abbiamo persone molto formate dal punto di vista teorico, ma i cui “esempi” non valgono nulla» (190). Questo problema, secondo lo studioso, non mancherebbe di riflettersi anche sul piano della comparazione: «Oggi formiamo studiosi che affrontano problemi ad ampio raggio, e un comparatista sarebbe tentato di vedere tutto questo di buon occhio. Ma bisogna ammettere che si tratta di discorsi molto spesso superficiali. Non c’è vera comparazione, ma tanto chiacchiericcio. Si comparano teorie, mai cose reali» (ibid.).

Più positivo, ma solo fino a un certo punto, è invece il bilancio sugli altri due cambiamenti epocali: l’internazionalizzazione della ricerca, che implicherebbe una sempre maggiore apertura da parte degli studiosi americani ed europei al confronto con tradizioni accademiche diverse, percepite un tempo come minoritarie o marginali; e il rinnovato impulso alla costruzione di una «scienza generale delle religioni», in particolare grazie all’apporto degli studi cognitivi, ma con l’inevitabile rischio, secondo Smith, di vedere attribuito a questi ultimi il ruolo di vernice teorica che fu occupato nel secolo scorso dalla fenomenologia.

Il lettore, in conclusione, troverà in questo volume un’ottima occasione per leggere – o rileggere – Smith, un autore che è indubbiamente destinato a diventare un grande classico nella storia delle religioni, nell’attesa (o nella speranza) che qualche editore italiano si decida a raccogliere la sfida di una traduzione dei suoi scritti anche nella nostra lingua.

[Recensione apparsa in Annali di Storia dell’Esegesi 32/1 (2015), pp. 253-255)

Nel Regno di Emmanuel Carrère

Emmanuel Carrère, Il Regno, trad. it. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano 2015, 432 pp. (or. Le Royaume, P.O.L., Paris 2014).

Il Regno di Emmanuel Carrère è stato giustamente definito come un esperimento di “non-fiction narrativa” incentrato sulla storia delle origini cristiane. Per molti versi si tratta di un’opera notevole, soprattutto nelle sezioni più apertamente autobiografiche (Prologo, Parte I ed Epilogo); ma temo che il giudizio non sarebbe altrettanto positivo se dovessimo valutare il testo da un punto di vista storico-esegetico. Purtroppo non basta tenere sott’occhio due traduzioni moderne della Bibbia, dichiarare di averne consultate regolarmente altre tre (così l’autore a p. 126), o mettersi in capo di rispolverare le vecchie pagine di Renan, per presumere di poter dire qualcosa di nuovo e interessante sulle origini del cristianesimo.

Il metodo che Carrère afferma di aver seguito per ricostruire i discorsi e le vicende dell’apostolo Paolo – «Ho messo insieme e parafrasato le fonti più antiche» (p. 118) – sta di fatto alla base di tutto il suo lavoro di scavo sui testi del primo cristianesimo.

Questo presupposto metodologico mi pare doppiamente significativo. In primo luogo, credo valga la pena di notare come lo sguardo dell’autore si limiti in realtà a contemplare ed esaminare solo fonti entrate a far parte del canone del Nuovo Testamento. Non soltanto Carrère non si preoccupa del carattere secondario e artificiale di qualunque distinzione, in sede storica, tra fonti canoniche e fonti extra-canoniche, ma sembra addirittura ignorare la stessa esistenza di queste ultime. Nessun accenno nemmeno alla storia redazionale degli Atti degli apostoli (principale canovaccio per la sua ricostruzione narrativa), allo spinoso problema della datazione di questo testo (che alcuni collocano addirittura alla prima metà del II secolo), all’ideologia sottesa al complesso programma storiografico/teologico dell’autore, di cui Carrère mantiene l’identificazione tradizionale con «Luca», il terzo evangelista canonico. Altrettanto problematico, nella sua spiazzante ingenuità, è il proposito di volersi limitare a una «parafrasi» delle fonti, come se queste – una volta rimosso il fastidioso filtro della loro lingua originale – possano parlare da sé, siano immediatamente afferrabili. Riflettere sulla loro distanza culturale, oltre che cronologica, avrebbe grandemente giovato all’autore: è un punto di partenza inaggirabile per qualunque approccio non confessionale a questo tipo di testi.(*)

Non stupisce dunque che il risultato dell’operazione, fatta salva l’indubbia abilità di Carrère nell’intrattenere e blandire il lettore, sia alla fine piuttosto scolastico e convenzionale. Anche quando l’autore si avventura in paragoni che dovrebbero essere illuminanti (per lo più desunti dalla storia politica del Novecento: le lettere di Paolo equiparate alle circolari inviate da Lenin alle diverse fazioni della Seconda Internazionale, p. 149; Paolo ritratto come un ufficiale dell’Armata Bianca che improvvisamente si “converte” alla dottrina marxista-leninista e chiede udienza a Stalin, p. 173; le posizioni di Paolo, Pietro e Giacomo viste come divisioni interne del Politburo, p. 177; Paolo come Trockij, p. 179; Paolo come Stalin, p. 183; Gesù come Lenin; Pietro e Giovanni come Trockij e Bucharin; e addirittura il povero Giacomo come Stalin, p. 208; Giuseppe Flavio come membro dell’apparatčik religioso, p. 215; i governatori della Giudea come Gauleiter nazisti, p. 217; Ponzio Pilato come Ariel Sharon, p. 218; il conflitto fra Giacomo e Paolo come quello fra Trockij e Stalin, p. 275; Nerone come Putin, p. 327; Shimon bar Giora come Saddam Hussein, p. 363), o quando ipotesi storiografiche più o meno raffazzonate vengono presentate al lettore come fossero folgoranti intuizioni (l’apostolo Filippo informatore di Luca, pp. 236-239; il carattere intenzionale della conclusione improvvisa degli Atti degli apostoli, p. 307; Luca ghostwriter della Lettera di Giacomo, pp. 313-318), l’impressione, almeno per chi abbia un minimo di familiarità con la letteratura critica ed esegetica prodotta negli ultimi cinquant’anni, è più che altro di trovarsi di fronte a espedienti retorici neppure troppo originali e quasi mai debitamente giustificati, e che inoltre aggiungono ben poco alla polpa narrativa.

In definitiva, se lo scopo dell’autore era (anche) quello di fornire una rilettura avvincente o provocatoria dei testi protocristiani, bisogna ammettere che il colpo non sembra davvero andato a segno. Per capire il perché, a voler essere maligni, basterebbe forse stilare un elenco della letteratura specialistica che Carrère dimostra di conoscere. Per quanto riguarda l’esegesi biblica, al di là dei vari richiami al già citato Renan (requiescat in pace), troviamo riferimenti sporadici ad Adolf von Harnack (grandissimo ma idem, p. 286), James Charlesworth (p. 221) e Jerome Murphy O’Connor (è lui l’esegeta domenicano a cui si allude a p. 327), oltre a una breve – e alquanto frettolosa – disamina delle ipotesi “revisioniste” di Hyam Maccoby (pp. 247-253), più un fugace accenno all’immancabile enfant terrible Jacob Taubes (p. 381).

Ugualmente magro – seppur meno incoerente – è il quadro che si ricava considerando le auctoritates invocate per la storia greco-romana: guarda caso sono tutte francesi, e includono Jérôme Carcopino (p. 304), Paul Veyne (pp. 138 e 321-323), Jean-Pierre Vernant (p. 201) e Pierre Vidal-Naquet (pp. 219-221). Senza nulla togliere al valore di tutti questi studiosi, non c’è nulla di più di quel che un lettore comune potrebbe recuperare a Parigi o in provincia, senza troppa fatica, tra gli scaffali di una FNAC, assieme ad opere di taglio divulgativo come quelle di Jérôme Prieur e Gérard Mordillat (i registi del documentario francese Corpus Christi, citato a p. 135) o di Simon S. Montefiore (autore di un fortunato best-seller sulla storia di Gerusalemme, ricordato a p. 211).

Molto più consistenti e numerosi, per ovvi motivi, sono invece i rimandi a filosofi e scrittori, il vero pantheon dell’autore: non ne ho contate tutte le citazioni, ma i nomi che ricorrono più spesso sono quelli di Philip Dick (onnipresente, quasi un deuteragonista, al quale peraltro Carrère ha già dedicato un altro dei suoi esperimenti di non-fiction), Fëdor Dostoevskij, Gustave Flaubert, Nikolaj Gogol, Franz Kafka, Friedrich Nietzsche, Blaise Pascal, Pier Paolo Pasolini, Edgar Allan Poe, Catherine Pozzi, Marcel Proust, Jerome David Salinger, Henryk Sienkiewicz, Lev Tolstoj, Miguel de Unamuno, Paul Valéry, Simone Weil e Marguerite Yourcenar; mentre fra i riferimenti più “religiosi”, per limitarsi alla sola tradizione cristiana, troviamo in particolare Agostino, Meister Eckhart, Ruysbroeck, Lutero, Francesco di Sales, Jean-Pierre de Caussade e le due Terese, d’Avila e di Lisieux (anche se il vero interlocutore, in questo frangente, è l’amico giornalista Hervé Clerc, e non mancano le considerazioni – sempre molto chic – su yoga e misticismo in genere).

A conti fatti, l’elemento che mi pare più significativo da sottolineare è la distanza di Carrère da un approccio realmente critico, e quindi storico, al problema delle origini cristiane. Questo spiega, fra le altre cose, l’inevitabile presenza di anacronismi (i Galati che rispondono alle accuse dei «capi della sinagoga» dicendo «Siamo cristiani… Siamo la chiesa di Gesù Cristo», p. 169; «Paolo messo sotto accusa […] da rabbini ortodossi», p. 227), affermazioni arbitrarie e imprecise («Greci e Romani credevano che fossero immortali gli dèi, non gli uomini», p. 166) o palesi amenità («Nei paesi conquistati Roma seguiva una politica rigorosamente laica. La libertà di pensiero e di culto era totale», p. 134; «quasi nessun episodio di questo libro che sto esaminando, gli Atti degli apostoli, è stato mai trasposto in immagini», p. 163).

Sarebbe sbagliato, pertanto, cercare tra le pagine del Regno indicazioni utili a una riflessione di tipo storico, perché semplicemente non ci sono o non sono valutabili come tali. Il libro si presenta piuttosto come un tentativo, da parte dell’autore, di fare i conti col proprio mestiere di scrittore e più in generale (mi si passi l’espressione) con la propria esperienza di uomo. Da qui deriva il suo singolare e a tratti seducente mix di confessione autobiografica, inchiesta giornalistica e riflessione (a)teologica. Oppure, se si preferisce, il suo capriccioso alternarsi tra «autobiografia e teologia, cazzeggio e profanazione, blasfemia e devozione», come ha splendidamente riassunto Marina Valensise sulle pagine del Foglio (“Miracolo per miscredenti”, articolo del 26 febbraio 2015). Verrebbe da dire che l’attuale compagna di Carrère, citata a p. 272, ha in fondo già scritto la migliore recensione possibile per questo libro, quando si è rivolta al suo autore e gli ha detto: «Bel pretesto, il tuo san Luca».

***

(*) In tema di parafrasi, viene subito in mente l’ammonimento metodologico più volte lanciato da Jonathan Z. Smith, soprattutto in riferimento a certe cattive pratiche molto diffuse nel campo degli studi biblici: «… the cognitive power of any translation, model, map, or redescription – as, for example, in the [scientific] imagination of “religion” – is a result of its difference from the phenomena in question and not its congruence … For this reason a paraphrase, perhaps the commonest sort of weak translation in the human sciences, nowhere more so than in biblical studies, will usually be insufficiently different for purposes of thought. To summarize: a theory, a model, a conceptual category, cannot be simply the data writ large» (J.Z. Smith, “Bible and Religion” [2000], in Relating Religion: Essays in the Study of Religion [Chicago and London: The University of Chicago Press, 2007], 197–214: cit. 208–209).

 

Charlie Hebdo, le religioni e la sfera pubblica

Ho letto con grande interesse il post che l’amico Raffaele Ventura ha dedicato ai recenti accadimenti di Parigi (“Il secondo comandamento”, 11 gennaio 2015), e l’ho trovato acuto e condivisibile quando tratta della logica sottintesa al terrorismo di matrice islamista, o della storia politica e culturale di Charlie Hebdo (una storia che molti, purtroppo, continuano a ignorare; per cui invito caldamente a una lettura integrale del pezzo di Raffaele, dal quale queste mie considerazioni dipendono). Ci sono alcuni aspetti dell’analisi, tuttavia, che mi paiono poco convincenti, e che meriterebbero una trattazione ben più approfondita di quella che mi appresto a fornire qui.

In primo luogo, non mi convince del tutto il paragone tra guerre di religione nel Seicento e situazione odierna: gli scenari sono sensibilmente diversi, e non riesco a capire in che modo Ventura ritenga che il primo possa spiegare il secondo (per inciso, una delle parti più problematiche del discorso è quella in cui si suppone un legame tra i provvedimenti censori di Enrico VIII e la nascita del dramma moderno, che sarebbe avvenuta in Inghilterra: cosa piuttosto opinabile, considerando la coeva evoluzione delle forme teatrali in un paese come la Spagna; ma su questo tema ci sono altri amici che potrebbero intervenire con maggiore competenza di me).

Anche i vari spunti di riflessione teorica sul problema della laicità, per quanto stimolanti, mi lasciano un po’ perplesso. Che cosa significa, concretamente, “estromettere la religione dallo spazio pubblico”? Sono ovviamente d’accordo nel pensare che la forza di uno Stato laico consista nella creazione di un ordinamento giuridico-politico – e perciò di uno spazio di convivenza tra persone e culture – che prescinda dall’intervento di princìpi e di strutture istituzionali di stampo confessionale. Ma non sono per nulla sicuro che questo implichi ipso facto l’estromissione della “religione” dallo spazio pubblico. In particolare, è l’uso del termine “religione” che mi fa problema, perché non ne capisco il significato e le possibili applicazioni in questo contesto. Che differenza passa, in termini antropologici, tra portare i dreadlocks e indossare un hijab? E perché mai dovrebbe essere automaticamente più laico uno Stato che li vietasse?

C’è poi l’idea che autenticamente laico, secondo Ventura, non sarebbe il “diritto universale di provocare un altro per via della sua religione, ma precisamente il contrario ovvero il dovere di non provocare un altro per via della sua religione”. Ora, lasciamo perdere il caso-limite delle vignette offensive di Charlie Hebdo, o il fatto che esse, molto spesso, non facciano altro che giocare su stereotipi etnocentrici: del resto, quale satira non funziona in questo modo? La satira storicamente ha sempre avuto un ruolo “conservatore”, tangenziale rispetto alla propaganda, e Charlie Hebdo non rappresenta di certo un’eccezione (si veda in proposito questa bella e amara tavola del fumettista Joe Sacco, pubblicata all’indomani della strage parigina). Ma come la mettiamo – faccio un esempio che mi tocca personalmente – con l’esigenza di analizzare in maniera critica i fenomeni religiosi? Se l’Università è concepita come uno spazio pubblico di circolazione, condivisione e approfondimento dei saperi, dovremmo allora escluderne l’interrogazione critica sulle “religioni”, qualora questa urtasse o rischiasse di urtare le diverse sensibilità dei credenti? È forse per un motivo di questo genere che le cosiddette scienze delle religioni, in molti atenei europei, versano oggi in una specie di stato di coma indotto?

Il problema per me si pone su tutti i fronti (ci sarebbero tantissimi esempi da portare nel campo degli studi biblici) e a tutte le latitudini: senza considerare il quadro degli studi islamistici o quello del mio particolare ambito di ricerca, potrei citare il caso dell’indologa Wendy Doniger, i cui lavori – al di là del loro valore scientifico – sono stati spesso ritenuti offensivi e provocatori da esponenti delle comunità hindu. Come ci si dovrebbe regolare, in questo caso, secondo il modello di laicità prefigurato da Ventura? E chi sarebbe chiamato a decidere cosa è provocatorio e per chi?

Tutto questo, si dirà, c’entra poco con la pratica di derisione sistematica, spesso triviale e talora violenta, fieramente rivendicata dai vignettisti di Charlie Hebdo di fronte ad alcuni gruppi religiosi o politici (con significative eccezioni, in verità comprensibili, ma delle quali sarebbe sciocco non tenere conto per una valutazione complessiva dei presupposti e degli obiettivi polemici del giornale, tutti interni al dibattito francese). E certamente hanno le loro buone ragioni quanti sostengono che non si possa confondere la libertà di espressione con la libertà di insulto. È anche vero, però, che il crinale fra le due è assai sottile, e che la percezione di questo crinale mette in gioco tante variabili, come emerge dal caso in questione, dove una qualunque giustificazione per gli “offesi” (i terroristi) risulterebbe improponibile, e come potrebbe emergere con più forza da un’attenta considerazione dei rapporti tra sfera civile e sfera religiosa, o tra libertà delle religioni e libertà dalle religioni, per come si sono definiti – e si stanno ancora definendo – nella cosiddetta “età secolare”.

Il nichilismo radicale di Charlie Hebdo è sicuramente uno dei frutti (un frutto avvelenato?) di questo dramma moderno delle libertà. E forse lo è pure, in una certa misura, il nichilismo degli attentatori di Parigi. Comprendere questo è essenziale. Ma sarebbe fuorviante e sbagliato, a mio parere, pensare di poter dedurre la natura dell’albero dal semplice esame di alcuni suoi frutti, senza cioè aver chiaro l’intero sviluppo della pianta. Ed è questo, in effetti, un punto sul quale lo studio dei conflitti religiosi dell’Europa moderna – e dei loro riflessi nella storia intellettuale europea – può ancora insegnarci qualcosa.

Lo storico delle religioni come sciamano

Rileggo le splendide pagine di Claude Lévi-Strauss su Quesalid, l’indiano kwak’wala che non credeva al potere degli stregoni, e che fingendosi sciamano per smascherare i loro inganni finì per ottenere più guarigioni di loro. Vi trovo un passaggio cruciale per comprendere la relazione intima, già intuita da Friedrich Max Müller, fra il linguaggio e quella-cosa-chiamata-religione:

«…in ogni prospettiva non scientifica (di cui nessuna società può vantarsi di non essere partecipe) pensiero patologico e pensiero normale non si contrappongono ma si completano. Il pensiero normale, di fronte a un universo che è avido di comprendere, ma di cui non riesce a dominare i meccanismi, richiede sempre alle cose il loro senso, ed esse glielo rifiutano; invece, il pensiero cosiddetto patologico abbonda di interpretazioni e di risonanze affettive, di cui è sempre pronto a sovraccaricare una realtà altrimenti deficitaria. Per uno, esiste il non verificabile sperimentalmente, vale a dire l’esigibile; per l’altro, esistono esperienze senza oggetto, vale a dire il disponibile. Adottando il linguaggio dei linguisti, diremo che il pensiero normale soffre sempre di un deficit di significato, mentre il pensiero cosiddetto patologico (almeno in talune sue manifestazioni) dispone di una pletora di significante. Attraverso la collaborazione collettiva alla cura sciamanistica, tra queste due situazioni complementari ha luogo un arbitrato…»

(C. Lévi-Strauss, “Lo stregone e la sua magia” [1949], in Antropologia strutturale, trad. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1990 [or. Anthropologie structurale, Plon, Paris 1964], pp. 189-209: cit. 204-205)

A ben vedere, si tratta di un arbitrato molto simile a quello che si trova al centro dell’impresa storico-religiosa. Se si volesse fondare una nuova rivista dedicata a questi temi, forse bisognerebbe chiamarla Quesalid.

In medio gurgite

Una breve riflessione sulle periferie ecclesiali.

Per quanto apprezzi il paradosso chestertoniano per cui la chiesa cattolica finirà per proclamare come dogma anche il fatto che 2 + 2 = 4, per me è evidente che 2 + 2 = 4 non solo non potrebbe, ma non dovrebbe mai diventare un dogma – pena la riduzione e lo svuotamento stesso del concetto di dogma. Il paradosso di Chesterton funziona per difendere la “ragione” (una certa idea di ragione), ma la difesa di questa ragione, nell’orizzonte classico del cattolicesimo, fa parte dei cosiddetti preamboli della fede, non della fede stessa.

Quel che mi pare all’opera nel tradizionalismo cattolico di oggi, con tutti i rischi del caso, è allora un affanno di questo tipo: i suoi patrocinatori vorrebbero una mappa della fede talmente ampia da poter contenere l’intero territorio dell’umano, una sorta di mappa in scala 1:1. Ma una mappa non può coincidere con il territorio: questo è un sogno moderno, ed è anche per questo che mi ostino a pensare che il tradizionalismo non sia nient’altro che un epifenomeno del modernismo.

Andando al fondo della questione, io avverto un abisso incolmabile tra l’idea di “tradizione” che si riscontra in un Ireneo di Lione e quella che si trova in un Bonald o in De Maistre. E la querelle tra modernisti e tradizionalisti mi ricorda sempre più l’alternativa tra il “gettare il bambino assieme all’acqua sporca” e il “conservare il bambino assieme all’acqua sporca”. In definitiva, mi pare che il dilemma riguardi soltanto l’acqua (ecco la modernità liquida), e non il bambino (ecco la solidità dell’Incarnazione).