Emmanuel Carrère, Il Regno, trad. it. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano 2015, 432 pp. (or. Le Royaume, P.O.L., Paris 2014).
Il Regno di Emmanuel Carrère è stato giustamente definito come un esperimento di “non-fiction narrativa” incentrato sulla storia delle origini cristiane. Per molti versi si tratta di un’opera notevole, soprattutto nelle sezioni più apertamente autobiografiche (Prologo, Parte I ed Epilogo); ma temo che il giudizio non sarebbe altrettanto positivo se dovessimo valutare il testo da un punto di vista storico-esegetico. Purtroppo non basta tenere sott’occhio due traduzioni moderne della Bibbia, dichiarare di averne consultate regolarmente altre tre (così l’autore a p. 126), o mettersi in capo di rispolverare le vecchie pagine di Renan, per presumere di poter dire qualcosa di nuovo e interessante sulle origini del cristianesimo.
Il metodo che Carrère afferma di aver seguito per ricostruire i discorsi e le vicende dell’apostolo Paolo – «Ho messo insieme e parafrasato le fonti più antiche» (p. 118) – sta di fatto alla base di tutto il suo lavoro di scavo sui testi del primo cristianesimo.
Questo presupposto metodologico mi pare doppiamente significativo. In primo luogo, credo valga la pena di notare come lo sguardo dell’autore si limiti in realtà a contemplare ed esaminare solo fonti entrate a far parte del canone del Nuovo Testamento. Non soltanto Carrère non si preoccupa del carattere secondario e artificiale di qualunque distinzione, in sede storica, tra fonti canoniche e fonti extra-canoniche, ma sembra addirittura ignorare la stessa esistenza di queste ultime. Nessun accenno nemmeno alla storia redazionale degli Atti degli apostoli (principale canovaccio per la sua ricostruzione narrativa), allo spinoso problema della datazione di questo testo (che alcuni collocano addirittura alla prima metà del II secolo), all’ideologia sottesa al complesso programma storiografico/teologico dell’autore, di cui Carrère mantiene l’identificazione tradizionale con «Luca», il terzo evangelista canonico. Altrettanto problematico, nella sua spiazzante ingenuità, è il proposito di volersi limitare a una «parafrasi» delle fonti, come se queste – una volta rimosso il fastidioso filtro della loro lingua originale – possano parlare da sé, siano immediatamente afferrabili. Riflettere sulla loro distanza culturale, oltre che cronologica, avrebbe grandemente giovato all’autore: è un punto di partenza inaggirabile per qualunque approccio non confessionale a questo tipo di testi.(*)
Non stupisce dunque che il risultato dell’operazione, fatta salva l’indubbia abilità di Carrère nell’intrattenere e blandire il lettore, sia alla fine piuttosto scolastico e convenzionale. Anche quando l’autore si avventura in paragoni che dovrebbero essere illuminanti (per lo più desunti dalla storia politica del Novecento: le lettere di Paolo equiparate alle circolari inviate da Lenin alle diverse fazioni della Seconda Internazionale, p. 149; Paolo ritratto come un ufficiale dell’Armata Bianca che improvvisamente si “converte” alla dottrina marxista-leninista e chiede udienza a Stalin, p. 173; le posizioni di Paolo, Pietro e Giacomo viste come divisioni interne del Politburo, p. 177; Paolo come Trockij, p. 179; Paolo come Stalin, p. 183; Gesù come Lenin; Pietro e Giovanni come Trockij e Bucharin; e addirittura il povero Giacomo come Stalin, p. 208; Giuseppe Flavio come membro dell’apparatčik religioso, p. 215; i governatori della Giudea come Gauleiter nazisti, p. 217; Ponzio Pilato come Ariel Sharon, p. 218; il conflitto fra Giacomo e Paolo come quello fra Trockij e Stalin, p. 275; Nerone come Putin, p. 327; Shimon bar Giora come Saddam Hussein, p. 363), o quando ipotesi storiografiche più o meno raffazzonate vengono presentate al lettore come fossero folgoranti intuizioni (l’apostolo Filippo informatore di Luca, pp. 236-239; il carattere intenzionale della conclusione improvvisa degli Atti degli apostoli, p. 307; Luca ghostwriter della Lettera di Giacomo, pp. 313-318), l’impressione, almeno per chi abbia un minimo di familiarità con la letteratura critica ed esegetica prodotta negli ultimi cinquant’anni, è più che altro di trovarsi di fronte a espedienti retorici neppure troppo originali e quasi mai debitamente giustificati, e che inoltre aggiungono ben poco alla polpa narrativa.
In definitiva, se lo scopo dell’autore era (anche) quello di fornire una rilettura avvincente o provocatoria dei testi protocristiani, bisogna ammettere che il colpo non sembra davvero andato a segno. Per capire il perché, a voler essere maligni, basterebbe forse stilare un elenco della letteratura specialistica che Carrère dimostra di conoscere. Per quanto riguarda l’esegesi biblica, al di là dei vari richiami al già citato Renan (requiescat in pace), troviamo riferimenti sporadici ad Adolf von Harnack (grandissimo ma idem, p. 286), James Charlesworth (p. 221) e Jerome Murphy O’Connor (è lui l’esegeta domenicano a cui si allude a p. 327), oltre a una breve – e alquanto frettolosa – disamina delle ipotesi “revisioniste” di Hyam Maccoby (pp. 247-253), più un fugace accenno all’immancabile enfant terrible Jacob Taubes (p. 381).
Ugualmente magro – seppur meno incoerente – è il quadro che si ricava considerando le auctoritates invocate per la storia greco-romana: guarda caso sono tutte francesi, e includono Jérôme Carcopino (p. 304), Paul Veyne (pp. 138 e 321-323), Jean-Pierre Vernant (p. 201) e Pierre Vidal-Naquet (pp. 219-221). Senza nulla togliere al valore di tutti questi studiosi, non c’è nulla di più di quel che un lettore comune potrebbe recuperare a Parigi o in provincia, senza troppa fatica, tra gli scaffali di una FNAC, assieme ad opere di taglio divulgativo come quelle di Jérôme Prieur e Gérard Mordillat (i registi del documentario francese Corpus Christi, citato a p. 135) o di Simon S. Montefiore (autore di un fortunato best-seller sulla storia di Gerusalemme, ricordato a p. 211).
Molto più consistenti e numerosi, per ovvi motivi, sono invece i rimandi a filosofi e scrittori, il vero pantheon dell’autore: non ne ho contate tutte le citazioni, ma i nomi che ricorrono più spesso sono quelli di Philip Dick (onnipresente, quasi un deuteragonista, al quale peraltro Carrère ha già dedicato un altro dei suoi esperimenti di non-fiction), Fëdor Dostoevskij, Gustave Flaubert, Nikolaj Gogol, Franz Kafka, Friedrich Nietzsche, Blaise Pascal, Pier Paolo Pasolini, Edgar Allan Poe, Catherine Pozzi, Marcel Proust, Jerome David Salinger, Henryk Sienkiewicz, Lev Tolstoj, Miguel de Unamuno, Paul Valéry, Simone Weil e Marguerite Yourcenar; mentre fra i riferimenti più “religiosi”, per limitarsi alla sola tradizione cristiana, troviamo in particolare Agostino, Meister Eckhart, Ruysbroeck, Lutero, Francesco di Sales, Jean-Pierre de Caussade e le due Terese, d’Avila e di Lisieux (anche se il vero interlocutore, in questo frangente, è l’amico giornalista Hervé Clerc, e non mancano le considerazioni – sempre molto chic – su yoga e misticismo in genere).
A conti fatti, l’elemento che mi pare più significativo da sottolineare è la distanza di Carrère da un approccio realmente critico, e quindi storico, al problema delle origini cristiane. Questo spiega, fra le altre cose, l’inevitabile presenza di anacronismi (i Galati che rispondono alle accuse dei «capi della sinagoga» dicendo «Siamo cristiani… Siamo la chiesa di Gesù Cristo», p. 169; «Paolo messo sotto accusa […] da rabbini ortodossi», p. 227), affermazioni arbitrarie e imprecise («Greci e Romani credevano che fossero immortali gli dèi, non gli uomini», p. 166) o palesi amenità («Nei paesi conquistati Roma seguiva una politica rigorosamente laica. La libertà di pensiero e di culto era totale», p. 134; «quasi nessun episodio di questo libro che sto esaminando, gli Atti degli apostoli, è stato mai trasposto in immagini», p. 163).
Sarebbe sbagliato, pertanto, cercare tra le pagine del Regno indicazioni utili a una riflessione di tipo storico, perché semplicemente non ci sono o non sono valutabili come tali. Il libro si presenta piuttosto come un tentativo, da parte dell’autore, di fare i conti col proprio mestiere di scrittore e più in generale (mi si passi l’espressione) con la propria esperienza di uomo. Da qui deriva il suo singolare e a tratti seducente mix di confessione autobiografica, inchiesta giornalistica e riflessione (a)teologica. Oppure, se si preferisce, il suo capriccioso alternarsi tra «autobiografia e teologia, cazzeggio e profanazione, blasfemia e devozione», come ha splendidamente riassunto Marina Valensise sulle pagine del Foglio (“Miracolo per miscredenti”, articolo del 26 febbraio 2015). Verrebbe da dire che l’attuale compagna di Carrère, citata a p. 272, ha in fondo già scritto la migliore recensione possibile per questo libro, quando si è rivolta al suo autore e gli ha detto: «Bel pretesto, il tuo san Luca».
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(*) In tema di parafrasi, viene subito in mente l’ammonimento metodologico più volte lanciato da Jonathan Z. Smith, soprattutto in riferimento a certe cattive pratiche molto diffuse nel campo degli studi biblici: «… the cognitive power of any translation, model, map, or redescription – as, for example, in the [scientific] imagination of “religion” – is a result of its difference from the phenomena in question and not its congruence … For this reason a paraphrase, perhaps the commonest sort of weak translation in the human sciences, nowhere more so than in biblical studies, will usually be insufficiently different for purposes of thought. To summarize: a theory, a model, a conceptual category, cannot be simply the data writ large» (J.Z. Smith, “Bible and Religion” [2000], in Relating Religion: Essays in the Study of Religion [Chicago and London: The University of Chicago Press, 2007], 197–214: cit. 208–209).