Charlie Hebdo, le religioni e la sfera pubblica

Ho letto con grande interesse il post che l’amico Raffaele Ventura ha dedicato ai recenti accadimenti di Parigi (“Il secondo comandamento”, 11 gennaio 2015), e l’ho trovato acuto e condivisibile quando tratta della logica sottintesa al terrorismo di matrice islamista, o della storia politica e culturale di Charlie Hebdo (una storia che molti, purtroppo, continuano a ignorare; per cui invito caldamente a una lettura integrale del pezzo di Raffaele, dal quale queste mie considerazioni dipendono). Ci sono alcuni aspetti dell’analisi, tuttavia, che mi paiono poco convincenti, e che meriterebbero una trattazione ben più approfondita di quella che mi appresto a fornire qui.

In primo luogo, non mi convince del tutto il paragone tra guerre di religione nel Seicento e situazione odierna: gli scenari sono sensibilmente diversi, e non riesco a capire in che modo Ventura ritenga che il primo possa spiegare il secondo (per inciso, una delle parti più problematiche del discorso è quella in cui si suppone un legame tra i provvedimenti censori di Enrico VIII e la nascita del dramma moderno, che sarebbe avvenuta in Inghilterra: cosa piuttosto opinabile, considerando la coeva evoluzione delle forme teatrali in un paese come la Spagna; ma su questo tema ci sono altri amici che potrebbero intervenire con maggiore competenza di me).

Anche i vari spunti di riflessione teorica sul problema della laicità, per quanto stimolanti, mi lasciano un po’ perplesso. Che cosa significa, concretamente, “estromettere la religione dallo spazio pubblico”? Sono ovviamente d’accordo nel pensare che la forza di uno Stato laico consista nella creazione di un ordinamento giuridico-politico – e perciò di uno spazio di convivenza tra persone e culture – che prescinda dall’intervento di princìpi e di strutture istituzionali di stampo confessionale. Ma non sono per nulla sicuro che questo implichi ipso facto l’estromissione della “religione” dallo spazio pubblico. In particolare, è l’uso del termine “religione” che mi fa problema, perché non ne capisco il significato e le possibili applicazioni in questo contesto. Che differenza passa, in termini antropologici, tra portare i dreadlocks e indossare un hijab? E perché mai dovrebbe essere automaticamente più laico uno Stato che li vietasse?

C’è poi l’idea che autenticamente laico, secondo Ventura, non sarebbe il “diritto universale di provocare un altro per via della sua religione, ma precisamente il contrario ovvero il dovere di non provocare un altro per via della sua religione”. Ora, lasciamo perdere il caso-limite delle vignette offensive di Charlie Hebdo, o il fatto che esse, molto spesso, non facciano altro che giocare su stereotipi etnocentrici: del resto, quale satira non funziona in questo modo? La satira storicamente ha sempre avuto un ruolo “conservatore”, tangenziale rispetto alla propaganda, e Charlie Hebdo non rappresenta di certo un’eccezione (si veda in proposito questa bella e amara tavola del fumettista Joe Sacco, pubblicata all’indomani della strage parigina). Ma come la mettiamo – faccio un esempio che mi tocca personalmente – con l’esigenza di analizzare in maniera critica i fenomeni religiosi? Se l’Università è concepita come uno spazio pubblico di circolazione, condivisione e approfondimento dei saperi, dovremmo allora escluderne l’interrogazione critica sulle “religioni”, qualora questa urtasse o rischiasse di urtare le diverse sensibilità dei credenti? È forse per un motivo di questo genere che le cosiddette scienze delle religioni, in molti atenei europei, versano oggi in una specie di stato di coma indotto?

Il problema per me si pone su tutti i fronti (ci sarebbero tantissimi esempi da portare nel campo degli studi biblici) e a tutte le latitudini: senza considerare il quadro degli studi islamistici o quello del mio particolare ambito di ricerca, potrei citare il caso dell’indologa Wendy Doniger, i cui lavori – al di là del loro valore scientifico – sono stati spesso ritenuti offensivi e provocatori da esponenti delle comunità hindu. Come ci si dovrebbe regolare, in questo caso, secondo il modello di laicità prefigurato da Ventura? E chi sarebbe chiamato a decidere cosa è provocatorio e per chi?

Tutto questo, si dirà, c’entra poco con la pratica di derisione sistematica, spesso triviale e talora violenta, fieramente rivendicata dai vignettisti di Charlie Hebdo di fronte ad alcuni gruppi religiosi o politici (con significative eccezioni, in verità comprensibili, ma delle quali sarebbe sciocco non tenere conto per una valutazione complessiva dei presupposti e degli obiettivi polemici del giornale, tutti interni al dibattito francese). E certamente hanno le loro buone ragioni quanti sostengono che non si possa confondere la libertà di espressione con la libertà di insulto. È anche vero, però, che il crinale fra le due è assai sottile, e che la percezione di questo crinale mette in gioco tante variabili, come emerge dal caso in questione, dove una qualunque giustificazione per gli “offesi” (i terroristi) risulterebbe improponibile, e come potrebbe emergere con più forza da un’attenta considerazione dei rapporti tra sfera civile e sfera religiosa, o tra libertà delle religioni e libertà dalle religioni, per come si sono definiti – e si stanno ancora definendo – nella cosiddetta “età secolare”.

Il nichilismo radicale di Charlie Hebdo è sicuramente uno dei frutti (un frutto avvelenato?) di questo dramma moderno delle libertà. E forse lo è pure, in una certa misura, il nichilismo degli attentatori di Parigi. Comprendere questo è essenziale. Ma sarebbe fuorviante e sbagliato, a mio parere, pensare di poter dedurre la natura dell’albero dal semplice esame di alcuni suoi frutti, senza cioè aver chiaro l’intero sviluppo della pianta. Ed è questo, in effetti, un punto sul quale lo studio dei conflitti religiosi dell’Europa moderna – e dei loro riflessi nella storia intellettuale europea – può ancora insegnarci qualcosa.