Lo storico delle religioni come sciamano

Rileggo le splendide pagine di Claude Lévi-Strauss su Quesalid, l’indiano kwak’wala che non credeva al potere degli stregoni, e che fingendosi sciamano per smascherare i loro inganni finì per ottenere più guarigioni di loro. Vi trovo un passaggio cruciale per comprendere la relazione intima, già intuita da Friedrich Max Müller, fra il linguaggio e quella-cosa-chiamata-religione:

«…in ogni prospettiva non scientifica (di cui nessuna società può vantarsi di non essere partecipe) pensiero patologico e pensiero normale non si contrappongono ma si completano. Il pensiero normale, di fronte a un universo che è avido di comprendere, ma di cui non riesce a dominare i meccanismi, richiede sempre alle cose il loro senso, ed esse glielo rifiutano; invece, il pensiero cosiddetto patologico abbonda di interpretazioni e di risonanze affettive, di cui è sempre pronto a sovraccaricare una realtà altrimenti deficitaria. Per uno, esiste il non verificabile sperimentalmente, vale a dire l’esigibile; per l’altro, esistono esperienze senza oggetto, vale a dire il disponibile. Adottando il linguaggio dei linguisti, diremo che il pensiero normale soffre sempre di un deficit di significato, mentre il pensiero cosiddetto patologico (almeno in talune sue manifestazioni) dispone di una pletora di significante. Attraverso la collaborazione collettiva alla cura sciamanistica, tra queste due situazioni complementari ha luogo un arbitrato…»

(C. Lévi-Strauss, “Lo stregone e la sua magia” [1949], in Antropologia strutturale, trad. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1990 [or. Anthropologie structurale, Plon, Paris 1964], pp. 189-209: cit. 204-205)

A ben vedere, si tratta di un arbitrato molto simile a quello che si trova al centro dell’impresa storico-religiosa. Se si volesse fondare una nuova rivista dedicata a questi temi, forse bisognerebbe chiamarla Quesalid.