Magia della comparazione

Jonathan Z. Smith, Magie de la comparaison. Et autres études d’histoire des religions (« Histoire des religions », 1), éds. D. Barbu et N. Meylan, Préface de P. Borgeaud, Genève, Labor et Fides, 2014, 200 pp.

La figura di Jonathan Z. Smith non dovrebbe necessitare di presentazioni. Nato e cresciuto a Manhattan, dopo studi di agraria e botanica e di filosofia (B.A. presso l’Haverford College, Pennsylvania, 1960), Smith fu il primo a conseguire un Ph.D. in Storia delle religioni a Yale (nel 1969, con tesi di dottorato sul metodo comparativo di Frazer). La sua folgorante carriera di docente e studioso di religioni comincia con un piccolo incarico presso il Dartmouth College, nel New Hampshire (1965-1966), dove Smith stringe amicizia con un giovane Jacob Neusner; prosegue presso l’Università della California a Santa Barbara (1966-1968), dove avviene l’incontro fatale con Mircea Eliade (di cui si considererà sempre un allievo, seppure «eretico»); e si consolida a Chicago, dove lo studioso darà vita a un corso di Introduzione alle religioni che lo terrà impegnato per più di quarant’anni (dal 1968 al 2011).

Nel campo degli studi religiosi e antropologici, il nome di Smith è universalmente noto per alcune raccolte di saggi, come Map Is Not Territory: Studies in the History of Religions (Leiden, Brill, 1978), Imagining Religion: From Babylon to Jonestown (Chicago, The University of Chicago Press, 1982) e Relating Religion: Essays in the Study of Religion (Chicago – London, The University of Chicago Press, 2004), ma anche per due volumi che hanno contribuito a una radicale ridefinizione dei confini teorici – e della pratica stessa – del comparativismo religioso: To Take Place: Toward Theory in Ritual (Chicago – London, The University of Chicago Press, 1987) e Drudgery Divine: On the Comparison of Early Christianities and the Religions of Late Antiquity (Chicago – London, The University of Chicago Press, 1990).

I lavori di Smith, che si sono concentrati soprattutto su questioni legate al problema della comparazione e dello studio critico dei fenomeni religiosi (con una particolare attenzione nei confronti dei sistemi religiosi di età ellenistica), hanno influenzato intere generazioni di studiosi, e sono oggi alla base di un rinnovamento metodologico che coinvolge direttamente anche gli studi sul cristianesimo primitivo, come testimoniano gli incontri del gruppo di ricerca su “Ancient Myths and Modern Theories of Christian Origins”, che dal 2000 si riunisce nel corso dei convegni annuali della Society of Biblical Literature (tra i membri del gruppo, oltre a Smith, figurano personalità di primo piano nel campo degli studi sulle origini cristiane, come William E. Arnal, Richard S. Ascough, John S. Kloppenborg, Burton L. Mack e Stanley K. Stowers; alcune ricerche prodotte dal gruppo sono confluite negli importanti volumi curati da R. Cameron e M.P. Miller, Redescribing Christian Origins, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2004, e Redescribing Paul and the Corinthians, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2011).

Come chi scrive ha già avuto modo di osservare altrove (si veda L. Walt, “L’origine delle origini. Jonathan Z. Smith e la storia naturale del cristianesimo”, in Annali di Storia dell’Esegesi 32/1 [2015] 199-216), è sorprendente constatare quanto la produzione scientifica di Smith, al di qua dell’oceano e soprattutto in area non anglofona, non abbia ancora ricevuto un’adeguata ricezione critica. Nel nostro Paese, per esempio, sono troppo pochi gli studiosi che si siano realmente confrontati con le sue proposte teoriche (si possono fare i nomi di Giovanni Filoramo e Mauro Pesce), e sarebbe interessante soffermarsi sui motivi che hanno spinto anche un autore ed editore di peso come Roberto Calasso, in un’intervista concessa al giornalista francese Alain Jaubert (trad. it. in V. Cecchetti, Roberto Calasso, Firenze, Cadmo, 2006, 215 ss.), a liquidare frettolosamente il contributo di Smith (in quel caso, su un tema cruciale come quello del sacrificio).

In effetti, almeno fino alla pubblicazione del volume che intendiamo presentare ora, si era potuta registrare in Europa la traduzione di un unico saggio di Smith (“The Domestication of Sacrifice”), all’interno della versione francese di Violent Origins: Walter Burkert, René Girard, and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation (ed. R.G. Hamerton-Kelly, Stanford, Stanford University Press, 1987). Vale la pena di notare, tuttavia, come l’editore francese si fosse risolto a presentare questo volume collettivo sotto il solo nome di Girard (Sanglantes origines, Paris, Flammarion, 2011), lasciando intendere il carattere meno rilevante, o quantomeno subordinato, degli altri interventi presenti in esso: il libro, in tal modo, venne fatto passare in Francia come una sorta di tavola rotonda sulle tesi di Girard, laddove in origine esso raccoglieva i materiali di un colloquio interdisciplinare attorno ai temi della violenza, del mito e del rito (il colloquio, organizzato da B.L. Mack, si tenne a Pajaro Dunes, California, nell’autunno del 1983).

Tanto più meritoria, da questo punto di vista, appare la decisione di rendere finalmente disponibili a un pubblico di lingua francese alcuni saggi scelti di Smith, che coprono un arco temporale che va dal 1974 al 2004, e che contribuiscono a formare il primo volume di una collana (« Histoire des religions », per le edizioni Labor et Fides) i cui sviluppi si annunciano già promettenti. L’operazione si deve all’intelligenza di due giovani studiosi, facenti capo a quella che possiamo ormai definire come scuola ginevrina di storia delle religioni, e che trova oggi espressione nella rivista Asdiwal (attiva dal 2006): Daniel Barbu, maître assistant presso l’Institut für Judaistik dell’Università di Berna, e Nicolas Meylan, maître assistant presso l’IRCM dell’Università di Losanna. I due curatori si sono occupati personalmente della selezione e traduzione dei vari saggi smithiani, e li hanno fatti precedere da una limpida introduzione (« Avant-Propos », 11-20). La premessa del volume (« Préface », 7-10), non a caso, è stata invece affidata alla penna di Philippe Borgeaud, professore emerito di Storia delle religioni a Ginevra e già allievo in giovinezza di Smith (ne seguì i corsi a Chicago, nell’a.a. 1972-1973).

Considerata l’ampiezza e la versatilità degli interessi di ricerca di Smith, non deve essere stato semplice operare una scelta bibliografica, ma bisogna ammettere che ai due curatori l’impresa è riuscita benissimo. Il risultato è un volume agile e compatto, che raccoglie sette interventi tra i più importanti (e dibattuti) di Smith, tutti accomunati dal tema della comparazione storico-religiosa e della definizione teorica dell’oggetto di studio “religione”.

L’antologia si apre così con il testo « Imaginer la religion » (23-27), che non corrisponde propriamente a un articolo di Smith, ma riproduce alcuni passaggi dell’introduzione di Imagining Religion (1982, xi-xiii). Vi fanno seguito, nell’ordine: « Religion, religions, religieux », testo-chiave che ripercorre la storia moderna delle categorie concettuali collegate al termine “religione” (29-52; or. “Religion, Religions, Religious”, in M. Taylor, ed., Critical Terms for Religious Studies, Chicago – London, The University of Chicago Press, 1998, 269-284; ora anche in Smith, Relating Religion, 179-196); « Magie de la comparaison », una rassegna critica delle varie modalità attraverso le quali è possibile pensare (e ri-pensare) la comparazione storico-religiosa (53-80; or. “In Comparison a Magic Dwells”, in Smith, Imagining Religion, 19-35); « Ici, là, où que ce soit », geniale tentativo di riclassificare i sistemi religiosi del Mediterraneo tardo-antico attraverso un’analisi del loro rapporto con gli spazi (81-101; or. “Here, There, and Anywhere”, in S.B. Noegel, J. Walker, B.M. Wheeler, eds., Prayer, Magic, and the Stars in the Ancient Late Antique World, University Park, Pennsylvania State University Press, 2003, 21-36; ora anche in Smith, Relating Religion, 323-339); « La topographie du sacré », sulla genesi storica, ma anche sugli usi e gli abusi, dell’ambigua categoria di “sacro”, a partire da un’analisi della trattazione ormai classica di Durkheim (103-121; or. “The Topography of the Sacred”, in Smith, Relating Religion, 101-116); « Une question de classe », sulla necessità e sui limiti dell’elaborazione di una classificazione scientifica delle religioni (123-146; or. “A Matter of Class: Taxonomies of Religion”, in Harvard Theological Review 89/4 [1996] 387-403; ora anche in Smith, Relating Religion, 160-178); e infine « Une carte n’est pas le territoire », grandioso appello a una riformulazione radicale delle categorie analitiche utilizzate per lo studio scientifico della religione (147-173; or. “Map Is Not Territory”, testo di una lezione inaugurale tenuta a Chicago nel maggio 1974, poi ripreso in Smith, Map Is Not Territory, 289-309).

A chiudere il volume, come bonus track in una compilation di pezzi classici (e trattandosi di Smith, non vi faremmo torto a considerare il tutto come un disco jazz), è una preziosa intervista rilasciata dall’autore a Philippe Bornet, nell’aprile del 2010, « Jonathan Z. Smith par lui-même » (175-195; versione riveduta di un testo apparso originariamente in Asdiwal 6 [2011] 23-37). Come è già accaduto in altre occasioni (si vedano p.es. S. Sinhababu, “Interview with J.Z. Smith”, in Chicago Maroon, 2 giugno 2008; e T. Pearson et al., “The Devil in Mr. Smith: A Conversation with Jonathan Z. Smith”, in Teaching Theology & Religion 17/1 [2014] 61-77), anche qui è il dialogo a briglia sciolta, nella dimensione dell’oralità, a restituirci un’immagine più completa e profonda dello studioso (oltre che dell’uomo) Smith.

Al di là degli inevitabili aneddoti, pure utilissimi a ricostruire il clima intellettuale in cui Smith si è formato e si è poi trovato ad agire negli USA, la lettura di questa intervista si rivela preziosa anche per la comprensione del metodo e dello stile di ricerca perseguiti dall’autore (un metodo fondamentalmente intrecciato all’enorme passione di Smith per l’insegnamento, come dimostrano i saggi recentemente raccolti nel volume On Teaching Religion, ed. C.I. Lehrich, Oxford, Oxford University Press, 2013), dei suoi autori e problemi di riferimento, come pure delle sue opinioni sullo stato di salute delle discipline storico-religiose. Decisamente interessante, per esempio, è la domanda che viene posta allo studioso sulle tendenze attuali della ricerca, cui Smith risponde indicando tre mutamenti epocali cui staremmo assistendo in questi anni, specialmente in ambiente statunitense (ma con ovvie ripercussioni a livello internazionale).

In primo luogo, avremmo «il passaggio dallo studio delle religioni, al plurale, allo studio della religione, al singolare»: un passaggio non privo di controindicazioni e di qualche incidente di percorso. «In effetti – avverte Smith con una certa amarezza – sono abbastanza vecchio per inquietarmi del fatto che oggi è possibile ottenere un dottorato in teoria critica della religione senza aver mai studiato alcuna religione. […] E cominciamo a vederne gli effetti: abbiamo persone molto formate dal punto di vista teorico, ma i cui “esempi” non valgono nulla» (190). Questo problema, secondo lo studioso, non mancherebbe di riflettersi anche sul piano della comparazione: «Oggi formiamo studiosi che affrontano problemi ad ampio raggio, e un comparatista sarebbe tentato di vedere tutto questo di buon occhio. Ma bisogna ammettere che si tratta di discorsi molto spesso superficiali. Non c’è vera comparazione, ma tanto chiacchiericcio. Si comparano teorie, mai cose reali» (ibid.).

Più positivo, ma solo fino a un certo punto, è invece il bilancio sugli altri due cambiamenti epocali: l’internazionalizzazione della ricerca, che implicherebbe una sempre maggiore apertura da parte degli studiosi americani ed europei al confronto con tradizioni accademiche diverse, percepite un tempo come minoritarie o marginali; e il rinnovato impulso alla costruzione di una «scienza generale delle religioni», in particolare grazie all’apporto degli studi cognitivi, ma con l’inevitabile rischio, secondo Smith, di vedere attribuito a questi ultimi il ruolo di vernice teorica che fu occupato nel secolo scorso dalla fenomenologia.

Il lettore, in conclusione, troverà in questo volume un’ottima occasione per leggere – o rileggere – Smith, un autore che è indubbiamente destinato a diventare un grande classico nella storia delle religioni, nell’attesa (o nella speranza) che qualche editore italiano si decida a raccogliere la sfida di una traduzione dei suoi scritti anche nella nostra lingua.

[Recensione apparsa in Annali di Storia dell’Esegesi 32/1 (2015), pp. 253-255)

Nel Regno di Emmanuel Carrère

Emmanuel Carrère, Il Regno, trad. it. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano 2015, 432 pp. (or. Le Royaume, P.O.L., Paris 2014).

Il Regno di Emmanuel Carrère è stato giustamente definito come un esperimento di “non-fiction narrativa” incentrato sulla storia delle origini cristiane. Per molti versi si tratta di un’opera notevole, soprattutto nelle sezioni più apertamente autobiografiche (Prologo, Parte I ed Epilogo); ma temo che il giudizio non sarebbe altrettanto positivo se dovessimo valutare il testo da un punto di vista storico-esegetico. Purtroppo non basta tenere sott’occhio due traduzioni moderne della Bibbia, dichiarare di averne consultate regolarmente altre tre (così l’autore a p. 126), o mettersi in capo di rispolverare le vecchie pagine di Renan, per presumere di poter dire qualcosa di nuovo e interessante sulle origini del cristianesimo.

Il metodo che Carrère afferma di aver seguito per ricostruire i discorsi e le vicende dell’apostolo Paolo – «Ho messo insieme e parafrasato le fonti più antiche» (p. 118) – sta di fatto alla base di tutto il suo lavoro di scavo sui testi del primo cristianesimo.

Questo presupposto metodologico mi pare doppiamente significativo. In primo luogo, credo valga la pena di notare come lo sguardo dell’autore si limiti in realtà a contemplare ed esaminare solo fonti entrate a far parte del canone del Nuovo Testamento. Non soltanto Carrère non si preoccupa del carattere secondario e artificiale di qualunque distinzione, in sede storica, tra fonti canoniche e fonti extra-canoniche, ma sembra addirittura ignorare la stessa esistenza di queste ultime. Nessun accenno nemmeno alla storia redazionale degli Atti degli apostoli (principale canovaccio per la sua ricostruzione narrativa), allo spinoso problema della datazione di questo testo (che alcuni collocano addirittura alla prima metà del II secolo), all’ideologia sottesa al complesso programma storiografico/teologico dell’autore, di cui Carrère mantiene l’identificazione tradizionale con «Luca», il terzo evangelista canonico. Altrettanto problematico, nella sua spiazzante ingenuità, è il proposito di volersi limitare a una «parafrasi» delle fonti, come se queste – una volta rimosso il fastidioso filtro della loro lingua originale – possano parlare da sé, siano immediatamente afferrabili. Riflettere sulla loro distanza culturale, oltre che cronologica, avrebbe grandemente giovato all’autore: è un punto di partenza inaggirabile per qualunque approccio non confessionale a questo tipo di testi.(*)

Non stupisce dunque che il risultato dell’operazione, fatta salva l’indubbia abilità di Carrère nell’intrattenere e blandire il lettore, sia alla fine piuttosto scolastico e convenzionale. Anche quando l’autore si avventura in paragoni che dovrebbero essere illuminanti (per lo più desunti dalla storia politica del Novecento: le lettere di Paolo equiparate alle circolari inviate da Lenin alle diverse fazioni della Seconda Internazionale, p. 149; Paolo ritratto come un ufficiale dell’Armata Bianca che improvvisamente si “converte” alla dottrina marxista-leninista e chiede udienza a Stalin, p. 173; le posizioni di Paolo, Pietro e Giacomo viste come divisioni interne del Politburo, p. 177; Paolo come Trockij, p. 179; Paolo come Stalin, p. 183; Gesù come Lenin; Pietro e Giovanni come Trockij e Bucharin; e addirittura il povero Giacomo come Stalin, p. 208; Giuseppe Flavio come membro dell’apparatčik religioso, p. 215; i governatori della Giudea come Gauleiter nazisti, p. 217; Ponzio Pilato come Ariel Sharon, p. 218; il conflitto fra Giacomo e Paolo come quello fra Trockij e Stalin, p. 275; Nerone come Putin, p. 327; Shimon bar Giora come Saddam Hussein, p. 363), o quando ipotesi storiografiche più o meno raffazzonate vengono presentate al lettore come fossero folgoranti intuizioni (l’apostolo Filippo informatore di Luca, pp. 236-239; il carattere intenzionale della conclusione improvvisa degli Atti degli apostoli, p. 307; Luca ghostwriter della Lettera di Giacomo, pp. 313-318), l’impressione, almeno per chi abbia un minimo di familiarità con la letteratura critica ed esegetica prodotta negli ultimi cinquant’anni, è più che altro di trovarsi di fronte a espedienti retorici neppure troppo originali e quasi mai debitamente giustificati, e che inoltre aggiungono ben poco alla polpa narrativa.

In definitiva, se lo scopo dell’autore era (anche) quello di fornire una rilettura avvincente o provocatoria dei testi protocristiani, bisogna ammettere che il colpo non sembra davvero andato a segno. Per capire il perché, a voler essere maligni, basterebbe forse stilare un elenco della letteratura specialistica che Carrère dimostra di conoscere. Per quanto riguarda l’esegesi biblica, al di là dei vari richiami al già citato Renan (requiescat in pace), troviamo riferimenti sporadici ad Adolf von Harnack (grandissimo ma idem, p. 286), James Charlesworth (p. 221) e Jerome Murphy O’Connor (è lui l’esegeta domenicano a cui si allude a p. 327), oltre a una breve – e alquanto frettolosa – disamina delle ipotesi “revisioniste” di Hyam Maccoby (pp. 247-253), più un fugace accenno all’immancabile enfant terrible Jacob Taubes (p. 381).

Ugualmente magro – seppur meno incoerente – è il quadro che si ricava considerando le auctoritates invocate per la storia greco-romana: guarda caso sono tutte francesi, e includono Jérôme Carcopino (p. 304), Paul Veyne (pp. 138 e 321-323), Jean-Pierre Vernant (p. 201) e Pierre Vidal-Naquet (pp. 219-221). Senza nulla togliere al valore di tutti questi studiosi, non c’è nulla di più di quel che un lettore comune potrebbe recuperare a Parigi o in provincia, senza troppa fatica, tra gli scaffali di una FNAC, assieme ad opere di taglio divulgativo come quelle di Jérôme Prieur e Gérard Mordillat (i registi del documentario francese Corpus Christi, citato a p. 135) o di Simon S. Montefiore (autore di un fortunato best-seller sulla storia di Gerusalemme, ricordato a p. 211).

Molto più consistenti e numerosi, per ovvi motivi, sono invece i rimandi a filosofi e scrittori, il vero pantheon dell’autore: non ne ho contate tutte le citazioni, ma i nomi che ricorrono più spesso sono quelli di Philip Dick (onnipresente, quasi un deuteragonista, al quale peraltro Carrère ha già dedicato un altro dei suoi esperimenti di non-fiction), Fëdor Dostoevskij, Gustave Flaubert, Nikolaj Gogol, Franz Kafka, Friedrich Nietzsche, Blaise Pascal, Pier Paolo Pasolini, Edgar Allan Poe, Catherine Pozzi, Marcel Proust, Jerome David Salinger, Henryk Sienkiewicz, Lev Tolstoj, Miguel de Unamuno, Paul Valéry, Simone Weil e Marguerite Yourcenar; mentre fra i riferimenti più “religiosi”, per limitarsi alla sola tradizione cristiana, troviamo in particolare Agostino, Meister Eckhart, Ruysbroeck, Lutero, Francesco di Sales, Jean-Pierre de Caussade e le due Terese, d’Avila e di Lisieux (anche se il vero interlocutore, in questo frangente, è l’amico giornalista Hervé Clerc, e non mancano le considerazioni – sempre molto chic – su yoga e misticismo in genere).

A conti fatti, l’elemento che mi pare più significativo da sottolineare è la distanza di Carrère da un approccio realmente critico, e quindi storico, al problema delle origini cristiane. Questo spiega, fra le altre cose, l’inevitabile presenza di anacronismi (i Galati che rispondono alle accuse dei «capi della sinagoga» dicendo «Siamo cristiani… Siamo la chiesa di Gesù Cristo», p. 169; «Paolo messo sotto accusa […] da rabbini ortodossi», p. 227), affermazioni arbitrarie e imprecise («Greci e Romani credevano che fossero immortali gli dèi, non gli uomini», p. 166) o palesi amenità («Nei paesi conquistati Roma seguiva una politica rigorosamente laica. La libertà di pensiero e di culto era totale», p. 134; «quasi nessun episodio di questo libro che sto esaminando, gli Atti degli apostoli, è stato mai trasposto in immagini», p. 163).

Sarebbe sbagliato, pertanto, cercare tra le pagine del Regno indicazioni utili a una riflessione di tipo storico, perché semplicemente non ci sono o non sono valutabili come tali. Il libro si presenta piuttosto come un tentativo, da parte dell’autore, di fare i conti col proprio mestiere di scrittore e più in generale (mi si passi l’espressione) con la propria esperienza di uomo. Da qui deriva il suo singolare e a tratti seducente mix di confessione autobiografica, inchiesta giornalistica e riflessione (a)teologica. Oppure, se si preferisce, il suo capriccioso alternarsi tra «autobiografia e teologia, cazzeggio e profanazione, blasfemia e devozione», come ha splendidamente riassunto Marina Valensise sulle pagine del Foglio (“Miracolo per miscredenti”, articolo del 26 febbraio 2015). Verrebbe da dire che l’attuale compagna di Carrère, citata a p. 272, ha in fondo già scritto la migliore recensione possibile per questo libro, quando si è rivolta al suo autore e gli ha detto: «Bel pretesto, il tuo san Luca».

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(*) In tema di parafrasi, viene subito in mente l’ammonimento metodologico più volte lanciato da Jonathan Z. Smith, soprattutto in riferimento a certe cattive pratiche molto diffuse nel campo degli studi biblici: «… the cognitive power of any translation, model, map, or redescription – as, for example, in the [scientific] imagination of “religion” – is a result of its difference from the phenomena in question and not its congruence … For this reason a paraphrase, perhaps the commonest sort of weak translation in the human sciences, nowhere more so than in biblical studies, will usually be insufficiently different for purposes of thought. To summarize: a theory, a model, a conceptual category, cannot be simply the data writ large» (J.Z. Smith, “Bible and Religion” [2000], in Relating Religion: Essays in the Study of Religion [Chicago and London: The University of Chicago Press, 2007], 197–214: cit. 208–209).

 

Paolo e il suo mondo

Helmut Koester, Paolo e il suo mondo, trad. it. di A. Russo, Paideia, Brescia 2012, 384 pp. (ed. or. Paul and His World: Interpreting the New Testament in Its Context, Fortress Press, Minneapolis 2007).

Sono davvero poche, in Italia, le case editrici che continuano a scommettere sulla pubblicistica accademica di argomento storico-religioso, riuscendo a mantenere uno standard di eccellenza nella scelta degli autori, nella qualità delle traduzioni e nella cura per la veste editoriale. E Paideia è indubbiamente una di queste. Dopo la recente apertura alle scienze sociali, con la traduzione di alcuni autori del Context Group (Philip F. Esler, Bruce J. Malina, John H. Neyrey), l’editore bresciano conferma così la propria volontà di “svecchiare” il panorama italiano degli studi biblici, proponendo ai propri lettori questo bellissimo volume di Helmut Koester, uno dei massimi studiosi viventi di storia del cristianesimo antico.

Nato ad Amburgo nel 1926, Koester si è formato a Heidelberg, sotto la guida di Rudolf Bultmann. Del suo maestro, tuttavia, non ha ereditato la passione teologica, quanto piuttosto il desiderio di trovare nuove chiavi di interpretazione per la storia delle origini cristiane, seguendo un approccio rigorosamente storico e “comparativo”. Le origini cristiane, da questo punto di vista, sono rilette da Koester nel quadro più ampio della storia religiosa del Mediterraneo antico, con un’impostazione che sembra contraddistinguere anche altri studiosi di scuola post-bultmanniana (penso in particolare a Dieter Georgi, allievo a Heidelberg, come Koester, del più brillante tra i discepoli di Bultmann: Günther Bornkamm).

Il primo lavoro importante di Koester, Synoptische Überlieferung bei den Apostolischen Vätern (1957), rimane ad oggi uno degli studi più significativi sulla ricezione delle tradizioni evangeliche nei cosiddetti “Padri apostolici” (etichetta un po’ impropria, che include opere diversissime tra loro, come la Didachè, il Pastore di Erma, la Lettera a Diogneto o l’epistolario di Ignazio di Antiochia). Si tratta per molti versi di un contributo pioneristico, ma che lascia solo in parte intravedere lo straordinario vigore dei lavori successivi.

Questo emerge, in tutta evidenza, nel libro scritto a quattro mani con James M. Robinson, Trajectories Through Early Christianity (1971), che segna un vero e proprio mutamento di “paradigma” nella storia della ricerca sulle origini cristiane. I due autori, infatti, ambiscono a restituire al cristianesimo delle origini il suo carattere strutturalmente, intrinsecamente plurale, senza partire dall’idea pregiudiziale di un primato insuperabile del Nuovo Testamento. Lo studio storico delle origini cristiane, spiegano i due autori, non può restare circoscritto al solo campo degli scritti confluiti nel canone, ma deve allargarsi anche alla considerazione di tutte le altre fonti prodotte dai vari gruppi protocristiani. E anche all’interno del canone – che è, lo ricordiamo, una creazione posteriore ai testi stessi – è assolutamente necessario rintracciare il maggior numero di tendenze ideologiche e sociali, anche rivali e contrastanti. L’obiettivo finale, per l’appunto, è quello di ricostruire le differenti traiettorie di trasmissione e di ricezione del messaggio di Gesù, nell’ambito complessivo dei primi secoli di storia del cristianesimo (si vedano, nel volume, i bellissimi contributi di Koester “Gnomai Diaphoroi: The Origin and Nature of Diversification in the History of Early Christianity” e “One Jesus and Four Primitive Gospels”).

Il capolavoro dello studioso, ad ogni modo, resta Ancient Christian Gospels: Their History and Development (1990), che cerca di ridisegnare la storia delle prime tradizioni evangeliche partendo dalle più antiche collezioni di parole di Gesù (le tradizioni orali che circolavano all’epoca di Paolo, la presunta fonte Q, i detti raccolti nel Vangelo di Tommaso), fino ad approdare ai primi tentativi di armonizzazione dei Vangeli canonici (le citazioni evangeliche presenti nell’opera di Giustino Martire, il Diatessaron di Taziano, etc.). A quest’opera magistrale hanno fatto seguito altri lavori di grande rilievo, come i due volumi di introduzione al Nuovo Testamento, History, Culture, and Religion of the Hellenistic Age (1995) e History and Literature of Early Christianity (2000), e l’ambizioso progetto The Cities of Paul: Images and Interpretations (in cd-rom, 2004).

Il volume tradotto ora da Paideia appartiene a quest’ultima fase della lunga carriera di Koester, anche se raccoglie contributi apparsi tra il 1955 e il 2006 (con l’aggiunta di un inedito). L’edizione originale dell’opera, apparsa nel 2007 col titolo Paul and His World: Interpreting the New Testament in Its Context, si presenta in realtà come il primo pannello di un dittico, che comprende anche From Jesus to the Gospels: Interpreting the New Testament in Its Context (2007). I due volumi, come si comprende dal comune sottotitolo, condividono il medesimo spirito e i medesimi obiettivi, e possono essere visti come una specie di summa dei tanti interessi di Koester: l’autore spazia infatti, con grande versatilità, dall’indagine socio-religiosa all’analisi delle testimonianze archeologiche, dall’esegesi filologica alla storia delle idee e della mentalità, dalla critica testuale alla storia dell’interpretazione.

Il trait d’union, nel caso di questo primo volume, è offerto quindi dalla figura di Paolo, ma soprattutto dallo sfondo che ci permette di osservarla. Abbiamo così tre sezioni distinte: “Leggere Paolo”, “Leggere il mondo di Paolo” e “Leggere il cristianesimo delle origini”.

La prima sezione si concentra in particolare sulla corrispondenza di Paolo ai Tessalonicesi e ai Filippesi, e su alcuni problemi specifici legati all’interpretazione di queste lettere. Koester si sofferma ad esempio sul genere letterario della prima epistola ai Tessalonicesi (considerata come un embrionale “esperimento di scrittura cristiana”), sull’uso da parte di Paolo di temi e motivi legati alla missione apostolica, sulla trasmissione del testo di 1Tessalonicesi secondo la ricostruzione delle moderne edizioni critiche. L’orizzonte si allarga poi al retroterra culturale e religioso di Tessalonica e Filippi, indagato con l’ausilio delle testimonianze archeologiche (statue, monete, iscrizioni votive, edifici di culto). La necessità di un allargamento comparativo delle fonti si fa sentire anche negli studi di carattere più “tradizionale”, come nel breve saggio dedicato alle concezioni escatologiche della seconda epistola ai Tessalonicesi. L’articolo più recente, che è poi quello che apre la raccolta, esprime infine la necessità di una ricostruzione della fisionomia sociale delle comunità paoline, muovendo da una rilettura del concetto di “giustizia di Dio”.

All’interno di questa prima sezione, troviamo anche una recensione al libro epocale di Ulrich Wilckens, Weisheit und Torheit (apparso nel 1959). Il testo risale al principio degli anni Sessanta, e costituisce uno di quei casi, oggi sempre più rari, in cui la recensione di un’opera finisce quasi per essere più interessante – e influente – dell’opera recensita. Koester, da una parte, rigetta l’ipotesi forte di Wilckens, quella per cui gli oppositori di Paolo a Corinto avrebbero interpretato la figura di Gesù in termini sapienziali e proto-gnostici, e dall’altra richiama l’attenzione sul celebre passaggio di 1Cor 1,11-12: «Fratelli miei, mi è giunta voce dalla gente di Cloe che vi sono contese tra di voi. Mi riferisco al fatto che ognuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io sono di Apollo”, “Io sono di Cefa”, “Io sono di Cristo”». Ora, osserva Koester, se il nome di Cristo compare nel testo a fianco di quello degli altri apostoli, è segno evidente che i Corinzi non scorgevano in lui la Sapienza personificata, ma semplicemente una guida spirituale accanto alle altre.

Non mancano poi, inevitabilmente, le ipotesi provocatorie e certamente discutibili, come nel saggio su Paolo e Filippi, dove Koester argomenta – contro tutta la tradizione – a favore di un collocazione del martirio dell’apostolo in questa città, e non a Roma.

La seconda sezione del libro, “Leggere il mondo di Paolo”, conferma in maniera ancor più decisa la capacità dell’autore di conciliare approcci metodologici spesso percepiti come distanti. I primi tre articoli si concentrano rispettivamente sull’immagine del Messia regale e sofferente, sulla figura dell’“uomo divino” e sul concetto di “legge naturale” nel pensiero greco. In tutti e tre i casi, la comprensione dell’orizzonte culturale di Paolo ne guadagna in profondità. Si affrontano poi alcuni casi-studio di diffusione di culti misterici e orientali in Asia Minore, cioè nei principali territori di missione toccati dall’apostolo. Scopo primario di queste indagini, è quello di ricostruire lo scenario di forte competizione religiosa in cui Paolo si trovò ad agire: l’eccezionale pluralismo religioso di quest’area dell’Impero romano, secondo Koester, potrebbe aver aperto la strada a una maggiore “permeabilità” nei confronti del messaggio evangelico.

L’ultima sezione del libro, “Leggere il cristianesimo delle origini”, è forse la più difficile da inquadrare, anche perché raccoglie studi di carattere più eterogeneo. Il primo saggio mette insieme, fin dal titolo, Thomas Jefferson, Ralph Waldo Emerson, il Vangelo di Tommaso e l’apostolo Paolo, e costituisce un’interessantissima riflessione sulle radici antiche, e profondamente “eterodosse”, di quella che Harold Bloom ha definito come “religione americana”: una miscela di spiritualismo religioso, idealismo filosofico e individualismo morale. Quale può essere il ruolo (anche critico) del messaggio di Paolo, in questa particolare cornice storico-culturale?

Con i contributi successivi, Koester ritorna ai primi secoli di storia cristiana, affrontando il delicato problema del rapporto tra Spirito, scrittura e autorità, il ruolo giocato dal concetto di “tradizione apostolica” nelle dinamiche di formazione dell’identità dei vari gruppi protocristiani (con particolare attenzione agli gnostici), il problema teologico della relazione fra ortodossia ed eresia, e il peso “geopolitico” di Efeso nelle testimonianze dei primi autori cristiani. A questi interventi corposi è fatta seguire una piccola “chicca”: una breve nota sull’uso dell’enigmatico appellativo di Oblias, in alcune fonti antiche, per designare Giacomo, il “fratello del Signore”. Gli ultimi due saggi del volume sono infine dedicati a una ricostruzione del contributo di Bultmann alla storia delle origini cristiane, e a una sorta di riflessione autobiografica, che è insieme bilancio di una carriera accademica e spunto per alcune considerazioni metodologiche.

In conclusione, possiamo dire di trovarci di fronte a un volume di eccezionale ricchezza, utilissimo per comprendere la vicenda storica di Paolo e, più in generale, per approfondire la conoscenza dell’ambiente storico-culturale delle origini cristiane.

[Recensione apparsa in Annali di Storia dell’Esegesi 31/1 (2014), pp. 246-248]

Il cardinal Newman e l’abito mentale filosofico

Angelo Bottone, John Henry Newman e l’abito mentale filosofico. Retorica e persona negli Scritti Dublinesi, Studium, Roma, 210 pp. 

Capita a proposito, in questi giorni, il bellissimo libro che l’amico Angelo Bottone ha appena pubblicato sul periodo dublinese del Cardinale John Henry Newman. Bottone aveva già curato, per le edizioni Studium, una traduzione dei discorsi newmaniani sull’idea di università (J.H. Newman, L’idea di università, Roma 2004): questa monografia cerca ora di offrire una migliore comprensione dello sfondo in cui germinarono le riflessioni “universitarie” del grande pensatore inglese.

Al principio del volume, troviamo  una ricostruzione del periodo che vide Newman occupato nella progettazione, fondazione e direzione dell’Università Cattolica d’Irlanda (sono gli anni fra il 1851 e il 1859). Rispetto ai contributi precedenti sul tema, le novità sono due: in primo luogo un allargamento delle fonti, col proposito di rintracciare e includere nell’analisi i vari testi prodotti dal Cardinale in quest’arco di tempo; in secondo luogo, uno spostamento dell’attenzione dagli aspetti meramente pedagogici a quelli più decisamente filosofici, considerando soprattutto i problemi dell’unità della conoscenza, della relazione fra conoscenza e moralità e del modello di “persona umana”.

Un capitolo centrale, particolarmente ricco d’intuizioni e di spunti, è dedicato al confronto fra Newman e tre grandi figure filosofiche di riferimento: Aristotele, Cicerone e John Locke. Di quest’ultimo se ne sottolinea la prospettiva utilitarista, agli antipodi dell’ideale propugnato dal Cardinale. Cicerone è invece valutato, sempre sulla scia di Newman, come esempio supremo di “uomo colto”, ma anche come simbolo di un’ambivalenza significativa: quella di chi assomma in sé «l’eccellenza dell’attività intellettuale ma anche i limiti dell’uomo educato al di fuori della fede cristiana».

Questa ambivalenza ritorna in maniera prepotente nella trattazione riservata ad Aristotele, che anche per Newman si può definire dantescamente come «maestro di color che sanno». Il quinto Discorso de L’idea di Università, come rileva giustamente Bottone, contiene ad esempio il «più grande tributo che Newman abbia mai reso a un autore non cristiano»:

«Finché durerà il mondo durerà la dottrina di Aristotele su questi argomenti, perché egli è l’oracolo della natura e della verità. In quanto uomini non possiamo fare a meno, in gran misura, di essere aristotelici, perché il gran maestro non fa che analizzare i pensieri, i sentimenti e i modi di vedere e le opinioni del genere umano. Egli ci ha mostrato il significato delle nostre stesse parole e idee, prima che fossimo nati. In molte materie pensare correttamente è pensare come Aristotele e noi siamo suoi discepoli che lo vogliamo o no, anche senza saperlo».

A questa esaltazione di Aristotele, tuttavia, non corrisponde una pedissequa professione di aristotelismo. Se è vero che Newman, seguendo lo Stagirita, anticipa in maniera del tutto originale lo sviluppo di alcune posizioni che saranno proprie del neo-aristotelismo del Novecento (e in particolare del comunitarisimo di Alasdair MacIntyre), è anche vero che del grande filosofo egli sottolinea, per l’appunto, il valore esclusivamente filosofico e “laico”. Giunti alle soglie della fede, anche la sua prospettiva è dichiarata insufficiente, seppure se ne debba riconoscere il carattere necessario.

Questa stessa dialettica, in fondo, sembra governare anche il pensiero di Newman sull’istituzione universitaria. Le pagine conclusive del libro, dedicate al “paradosso” e al “fallimento” del progetto newmaniano, appaiono da questo punto di vista di una chiarezza esemplare. L’attualità del pensiero di Newman, spiega infatti Bottone, non dev’essere valutata pensando alle sue possibilità di realizzazione concreta: più delle caratteristiche programmatiche dell’istituzione che Newman aveva in mente, contano gli ideali di conoscenza e di persona che egli intendeva promuovere attraverso di essa.

L’idea di Università diventa in questo modo una sorta di “piano regolatore”, valido per qualunque tipo di attività intellettuale. In questa prospettiva, anche una città (o per meglio dire una “metropoli”) potrebbe supplire alle eventuali carenze di un’istituzione universitaria, ponendosi come luogo di comunicazione fra i saperi, le esperienze educative e le persone. Ciò che interessa a Newman, in definitiva, è la creazione o la salvaguardia di spazi comuni che permettano uno sviluppo integrale dell’uomo, in tutte le sue facoltà (intellettuale, morale e artistica). E contro un ideale così alto, sembra suggerirci Bottone, non c’è crisi economica che possa intervenire.

Un nuovo dizionario di critica testuale del Nuovo Testamento

Sergio Cingolani, Dizionario di critica testuale del Nuovo Testamento. Storia, canone, apocrifi, paleografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2008, 488 pp.

Da «A 02» a «Ω 045», oppure, non considerando le sigle dei codici, da «Abbreviazioni nei manoscritti» a «Zostriano»: sono questi gli estremi delle oltre mille voci che compongono il Dizionario di critica testuale del Nuovo Testamento, approntato da Sergio Cingolani per le edizioni San Paolo. L’autore, docente di Acustica Musicale e Architettonica presso l’Università di Milano e Pavia, è da anni impegnato nella divulgazione di tematiche connesse alla formazione dei testi biblici e alla loro complessa storia testuale. Con questo lavoro, viene dunque colmata una doppia lacuna nel panorama editoriale italiano: da un punto di vista specialistico, fornendo agli studiosi un sussidio agile, sintetico e di facile consultazione; da un punto di vista divulgativo, mettendo a disposizione anche del semplice curioso uno strumento essenziale per accostarsi alla lettura di un’edizione critica del Nuovo Testamento.

Il sottotitolo dell’opera – Storia, canone, apocrifi, paleografia – rende conto dell’ampiezza degli argomenti trattati: la storia è rappresentata dalle voci consacrate alla trasmissione dei testi, alle scoperte papirologiche, all’elaborazione dei metodi; ai principali testi protocristiani, senz’alcuna distinzione pregiudiziale fra canonici ed extra-canonici, è dedicata poi una breve trattazione, così come a tutte le questioni concernenti la formazione dei vari corpora; l’interesse paleografico, infine, è soddisfatto da un repertorio analitico della base documentaria (papiri e manoscritti) e da uno spoglio delle principali nozioni di critica testuale.

Il volume è completato da una serie di tavole fuori testo e da tre ampie appendici: la prima è dedicata agli autori ecclesiastici menzionati negli apparati critici del Nuovo Testamento, da Acacio di Cesarea a Zenone di Verona (pp. 287-337); la seconda è formata da un elenco completo dei manoscritti conosciuti del Nuovo Testamento (papiri, manoscritti in onciale, manoscritti minuscoli, ma anche lezionari e versioni antiche), classificati per nome, data, tipologia e contenuto (pp. 339-410); la terza appendice, infine, raccoglie abbreviazioni e tabelle (pp. 411-442), alcune di estrema utilità. Non potevano mancare un repertorio bibliografico di base e un breve elenco di siti internet (pp. 443-455), oltre ovviamente a un indice delle voci trattate, degli autori antichi citati e delle materie del volume.

Facendo nostre le conclusioni di Anna Passoni Dell’Acqua, che ne ha firmato la prefazione, auguriamo quindi «a questa paziente fatica un’ampia diffusione e un frequente utilizzo: al di là delle conoscenze storiche, esegetiche, teologiche, antiquarie che varrà a far circolare, essa contribuirà a rendere più facile la frequentazione del testo biblico anche come opera artistica e letteraria».

[Recensione apparsa in Annali di Storia dell’Esegesi 27/1 (2010), pp. 384-385]