Matteo Ricci, Il vero significato del Signore del cielo, a cura di A. Chiricosta, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006, 320 pp.
La figura intellettuale di Matteo Ricci (1552-1610) – del quale ricorre quest’anno il quarto centenario della morte – è senz’ombra di dubbio tra le più affascinanti dell’intera storia del cristianesimo. Astronomo, matematico, geografo e umanista, ma soprattutto missionario alla corte dei Ming, il gesuita Ricci sembra quasi incarnare e far convergere su di sé tutti i tratti tipici dell’uomo rinascimentale e barocco.
Ricci fu anche il primo autore occidentale a scrivere direttamente in lingua cinese. Si pensi solo al Tianzhu shiyi (“Vero significato del Signore del Cielo”), di cui è apparsa da poco la prima versione italiana in assoluto. Frutto di una gestazione che occupò Li Madou – questo il nome mandarino di Ricci – per quasi tutto l’arco della sua permanenza in Cina, dal 1594 al 1604, il testo venne composto con precise finalità missionarie, «acciocché potesse servire a Cristiani et a gentili e potesse esser inteso in altre parti remote, dove non potessero così presto arrivare i nostri, aprendo con questo il camino agli altri misterij che dipendono dalla fede et scientia rivelata».
È solo impropriamente che quest’opera può essere definita come un “catechismo”: si tratta piuttosto di un manuale apologetico ad uso dei predicatori diretti in Cina, o meglio ancora di un’esposizione ordinata dei praeambula Fidei, di tutto ciò che, da un punto di vista filosofico, poteva risultare preparatorio per l’accoglimento della rivelazione cristiana da parte dei Cinesi. In tal senso, il Tianzhu shiyi è innanzitutto un raffinatissimo esempio di traduzione e di confronto fra culture. Il metodo è quello offerto dalla Summa contra gentiles di Tommaso d’Aquino, per cui l’esposizione della fede cristiana deve partire dagli elementi che risultano comuni con l’uditorio (di fronte agli “eretici”, per esempio, il missionario si sarebbe dovuto concentrare sulla figura di Gesù e sull’interpretazione del Nuovo Testamento; di fronte agli Ebrei, sulla testimonianza delle Scritture; di fronte ai “Gentili”, cioè i non cristiani, sugli argomenti di ragione). Da qui deriva il suo carattere assolutamente originale e innovativo.
Scritto in forma di dialogo fra un letterato cinese e un letterato occidentale, il testo affronta vari temi: l’unicità di Dio, la creazione, l’esistenza e l’immortalità dell’anima, la fondamentale bontà della natura umana, ma anche il celibato ecclesiastico e i motivi per i quali il “Signore del Cielo” si sarebbe incarnato proprio in Occidente; sempre partendo da un confronto serrato con le dottrine orientali, e in particolare con il confucianesimo (dichiarato compatibile con il cristianesimo) e con il buddhismo (indicato invece come una forma nociva di idolatria). L’apparato concettuale è sostanzialmente quello della Scolastica: si pensi dunque all’enorme sforzo intellettuale che il gesuita dovette impiegare, per tradurre i concetti di Aristotele e Tommaso secondo le categorie centrali del pensiero tradizionale cinese (per come lo stesso Ricci, evidentemente, poteva comprenderle).
Il libro ha sempre goduto in Oriente di una straordinaria diffusione. Se ne sono avute traduzioni in coreano, mancese, vietnamita, mongolo, tonchinese e giapponese: la ristampa più recente, con traduzione in cinese moderno, risale al 1985. Diverso il suo destino in Europa, dove la famigerata querelle dei “riti cinesi”, scaturita proprio dall’opera missionaria di Ricci, ne impedì da subito la diffusione. Per giungere a una prima versione occidentale, bisognerà addirittura attendere gli anni Ottanta del secolo scorso, con l’edizione americana curata da E.J. Malatesta (The True Meaning of the Lord of Heaven = T’ien-chu Shih-i, Chinese Text with Parallel English Translation by D. Lancashire and P. Ho Kuo-chen, Institut Ricci, Taipei 1985).
Ma quello di Ricci non è certo l’esempio più estremo di accomodatio che potremmo rilevare nella storia dei primi contatti moderni fra cristianesimo e civiltà dell’Oriente. Un caso molto più eloquente, anche se meno conosciuto, è quello di Roberto De Nobili, un gesuita italiano che giunse in India agli inizi del XVII secolo. Lo scenario della sua vicenda è quello dei primi passi dell’evangelizzazione cattolica in Asia, dove si fronteggiano due opposte strategie missionarie: da un lato quella dei gesuiti, che preferivano rivolgersi ai vertici della società, dall’altro quella dei francescani, che puntavano invece all’evangelizzazione della “base”. Un problema che si pose ben presto in India, per quanto riguarda appunto i vertici, era costituito dal fatto che questi non potevano accettare alcun contatto contaminante con gli europei “fuori-casta”.
Il De Nobili, dal canto suo, riuscì a portare alle estreme conseguenze proprio la teoria gesuitica dell’accomodatio, vivendo per più di cinquant’anni come un autentico brahmino, un sannyasin, vale a dire nel più stretto regime di mortificazione e di ascesi (pare si sia sempre nutrito di un solo pasto quotidiano, a base di riso e ortaggi, in perfetto ossequio alle regole castali). Come ci riuscì? In teoria, date le umili origini, per giunta non indiane, egli non avrebbe mai potuto aspirare al titolo di brahmino (nessuna possibilità di parafrasare Totò: «Brahmini si nasce… ed io modestamente lo nacqui»), ma col consenso dei superiori decise di presentarsi agli indiani come un rajah romano, che rinunciava ai propri privilegi (ma non ai propri doveri) per abbracciare la più stretta osservanza brahminica. E in qualità di rinunciante, un collegio di brahmini finì per accettarlo come sannyasin a tutti gli effetti.
Quando la cosa giunse agli orecchi delle autorità ecclesiastiche, ci fu naturalmente qualche dissapore. Ma l’aspetto più interessante dell’intera faccenda, a ben vedere, fu il nome col quale il De Nobili divenne famoso in terra indiana: quello di “Maestro della realtà”. Il De Nobili predicava infatti, contro i capisaldi delle speculazioni indo-buddhiste, l’esistenza del reale, il carattere assolutamente non illusorio della realtà: questo, diceva, era il presupposto filosofico ineliminabile per l’accoglienza del cristianesimo. Non è un caso, quindi, che le critiche che gli vennero mosse, anche in seno all’ordine, riguardassero esclusivamente il metodo della predicazione. Stupiva e disorientava, in poche parole, il fatto ch’egli si fosse adeguato ai costumi, e in certo modo anche alle pratiche, delle popolazioni cui intendeva predicare il Vangelo. Ma la sostanza dottrinale, strepitosamente, rimase inalterata. E ironia della sorte, egli passò alla storia come un sannyasin perfettamente ortodosso.
D’altronde, come amava osservare Gilbert K. Chesterton, con una sentenza che potrebbe attagliarsi benissimo anche al caso di padre Matteo Ricci, «La carità copre una gran quantità di peccati; allo stesso modo l’ortodossia copre una gran quantità di eresie, o di cose che nella fretta vengono scambiate per eresie».