Romano Penna, Lettera ai Romani, vol. I, Rm 1-5. Introduzione, versione, commento («Scritti delle origini cristiane» 6), Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004, 496 pp.
La Lettera ai Romani gode oggi, in Italia, di un rinnovato e fecondo interesse: da un punto di vista storico-esegetico (si pensi ai commenti di A. Sacchi e A. Pitta, o agli studi di G. Barbaglio), come in altri settori disciplinari (basti considerare i volumi di G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino 2001, o di R. Panattoni, Appartenenza ed eschaton. La Lettera ai Romani di San Paolo e la questione “teologico-politica”, Napoli 2001, che fa il punto sulle riletture e “disletture” paoline di E. Peterson, K. Schmitt e J. Taubes). Anche il più celebre dei paolinisti nostrani, Romano Penna, ha avvertito l’esigenza di tornare al suo interesse primigenio – e in verità mai sopito – per Paolo, dopo una parentesi dedicata ad alcune indagini di carattere sistematico (ad es. I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, 2 voll., Cinisello Balsamo 1996-99, o Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 2001): il risultato è un voluminoso commento, che immediatamente si pone sulla scia della grande tradizione esegetica di Rm (K. Barth, J.A. Fitzmeyer, E. Käsemann, H. Schlier, U. Wilckens, etc.).
Il primo volume, consacrato ai capitoli 1-5 della Lettera, si apre non a caso con un catalogo dei principali commentari utilizzati dall’Autore, divisi in antichi (dall’Origene latino ai Commentaires sur le Nouveau Testament di Calvino) e moderni (da quello di W. Sanday e A.C. Headlam, del 1902, a quello di E. Lohse, apparso nel 2003). L’«Introduzione generale» (17-78), suddivisa in tre capitoli, affronta previamente alcune quaestiones disputatae: identità dei destinatari, intenzioni del mittente, problemi relativi al testo. Il commento vero e proprio, che si snoda per più di quattrocento pagine (79-483), si basa sul disegno architettonico della lettera proposto dall’Autore (77-78): per ciascuna pericope, vengono offerte una nuova versione, alcune note di critica testuale, uno “sguardo d’insieme” sui contenuti, e ovviamente un’esposizione dettagliata, versetto per versetto. In corpo minore, all’interno del commento, sono aggiunte integrazioni utili, che comprendono l’esame di passi paralleli nella letteratura giudaica o greco-romana, la spiegazione di alcune voci, brevi tratteggi di storia dell’esegesi. Completa il volume un «Indice degli Autori», mentre altri apparati compariranno probabilmente al termine dell’opera.
Il testo dell’Introduzione, sul quale intendiamo soffermarci, è articolato attraverso i tre classici elementi del discorso: “colui al quale si parla” (i destinatari della lettera), “colui che parla” (il mittente e le sue ragioni) e “ciò di cui si parla” (le forme e i contenuti della lettera). La prima questione da affrontare riguarda dunque la configurazione stessa, e l’origine, dei gruppi di seguaci di Gesù presenti all’epoca di Paolo in ambiente romano. Com’è noto, l’apostolo si rivolge a varie comunità domestiche, composte da fedeli che hanno accolto il Vangelo già da tempo, indipendentemente dalla sua predicazione (cf. Rm 1,8.13-15; 15,20; 16,19). I primi evangelizzatori della capitale, secondo Penna, sarebbero stati alcuni «ebrei credenti in Cristo, venuti ad abitare a Roma provenendo dalla Palestina o dalla diaspora, sia come mercanti sia come schiavi», oppure «ebrei romani che, probabilmente in seguito a un pellegrinaggio a Gerusalemme (cf. At 2,10), là vennero a contatto con la fede cristiana e poi cominciarono a propagarla tornando a Roma», verso la metà degli anni 40 (23).
Riguardo alla connotazione etnico-religiosa dei destinatari, l’Autore passa in rassegna le abbondanti testimonianze esterne (avvalendosi anche dell’ampio materiale epigrafico esaminato da P. Richardson: vd. 34, n. 56) e gli elementi interni al testo (ad es. la lista dei saluti al c. 16; ma anche i passi lungamente dibattuti di Rm 1,5-6; 10,1-3; 10,18–11,11; 11,13-14; 15,15-16), delineando in tal modo il quadro di una comunità mista, a maggioranza non giudaica: «definire costoro come “giudeo-cristiani” – puntualizza Penna – potrebbe sembrare un’operazione linguistica non solo ambigua ma impropria, poiché essi non sono “etnicamente” giudei; ma è possibile utilizzare questa etichetta a livello puramente confessionale, e quindi in riferimento a dei cristiani di origine gentile ma d’impronta giudaizzante» (28-29). In altri termini, contro una polarizzazione eccessiva fra “giudaismo” e “gentilesimo” (sostenuta in varie occasioni, da F.C. Baur a N. Elliott), Paolo si rivolgerebbe soprattutto a un pubblico formato da proseliti o “simpatizzanti” di origine gentile, che avevano aderito al Vangelo con uno specifico timbro “legalistico”: un carattere giudaizzante confermato peraltro da numerose attestazioni antiche, come quella del primo commentatore romano della nostra lettera, l’Ambrosiaster (IV sec.), il quale scrive che i Giudei, «ai tempi degli apostoli», «insegnarono ai romani a conservare la legge pur professando Cristo». Questo spiegherebbe il frequente ricorso paolino alla probatio ex Scripturis, o il passo di Rm 7,1, ove Paolo si rivolge a «persone che conoscono la legge», forse appunto a Gentili «istruiti prima nella conoscenza della Torah e poi diventati cristiani» (32).
Interrogandosi sui motivi che avrebbero spinto Paolo alla stesura dell’epistola, Penna si dimostra scettico nei confronti di qualunque spiegazione unilaterale, che voglia far leva su singoli fattori connessi all’ordine interno della comunità: dalla presenza di eventuali oppositori (che criticano o fraintendono le posizioni paoline: cf. Rm 3,8; 6,1-8.39), alle tensioni fra “deboli” e “forti” (Rm 14,1-15), fino ai contrasti con le autorità romane (forse biasimati in Rm 13,1-7). È più corretto parlare, riecheggiando A.J.M. Wedderburn, di «a cluster of different interlocking factors» (49): in primo luogo, l’intenzione da parte dell’apostolo di recarsi a Roma, e di stilare una sorta di lettera di auto-raccomandazione (secondo la felice espressione di H. Koester), magari per favorire il proseguimento della missione verso Occidente (cf. Rm 15,24.28); in secondo luogo, la necessità di una «carta d’identità teologica», quasi di un dialogus cum Iudaeo (così Jeremias), o per meglio dire di un dialogus Iudaei cum Iudaeis; infine, l’urgenza di una trattazione più ampia e distesa di tutti i nodi fondamentali della propria predicazione, nell’imminenza di un ritorno a Gerusalemme (Rm 15,25-26).
Nella sezione conclusiva dell’introduzione, che anticipa i contenuti e l’articolazione del commento, Penna discute poi le questioni relative all’unità e all’integrità dell’epistola (appoggiandosi in particolare alle analisi di H. Gamble), stigmatizzando i vari tentativi di smembramento (R. Scroggs, W. Schmithals, W. Simonis), e giungendo ad individuare nell’euaggélion il tema portante di Rm: «non solo perché l’annuncio costituisce tutto il vanto dell’Apostolo (cf. Rm 1,14s; 1Cor 9,16), ma soprattutto perché l’intera lettera offre un’ampia riflessione ermeneutica sull’annuncio cristiano e sui vari risvolti del suo contenuto e della sua efficacia» (68). Tutto il corpo centrale del testo paolino, compreso fra il prescritto (Rm 1,1-15) e l’epilogo (Rm 15,13-16,27), viene così strutturato in due parti, segnate dal tema dell’«identità cristiana», modellata sull’annuncio di Cristo. La prima parte, introdotta da una brevissima presentazione (la propositio di Rm 1,16-17), risulterebbe dedicata all’esposizione dei «costitutivi fondamentali» di tale nuova identità (Rm 1,16-11,36), e si dividerebbe a sua volta in tre diverse sezioni, destinate rispettivamente a «Giudei e Gentili», ai «battezzati in Cristo» e all’«Israele incredulo»: a) la prima avrebbe per argomento principale l’antitesi fra giustizia retributiva e giustizia evangelica (1,18-5,21); b) la seconda l’esame delle conseguenze antropologiche dell’inserimento in Cristo e dell’azione dello Spirito (6,1-8,39); c) la terza l’analisi delle conseguenze storico-salvifiche del Vangelo (9,1-11,36). La seconda parte dello scritto, anticipata dalla propositio che troviamo in Rm 12,1-2, sarebbe invece costituita da un duplice pannello, dedicato alla «componente etica» dell’identità cristiana: «L’agape come criterio centrale dell’etica cristiana» (Rm 12,3-13,14) e «Il caso dei rapporti tra deboli e forti» (Rm 14,1-15,12).
Il commento di Penna, che per ovvie ragioni non ci è possibile discutere nel dettaglio, risulta accuratissimo dal punto di vista dell’analisi letteraria (grammatica, lessico, stile) e retorica (struttura del testo, strategie comunicative, procedimenti ermeneutici). Un esempio della profonda sinergia che si instaura fra entrambe le prospettive è fornito dalle pagine in cui Penna discute i vv. 25-26 di Rm 3, ove compare peraltro il controverso termine hilasterion (reso qui con “strumento di espiazione”), a qualificare l’azione di Cristo: in proposito, l’Autore sottolinea il fatto che questo risulta essere l’unico passo in cui l’apostolo impiega un termine tratto dal vocabolario cultuale, senza applicarlo in maniera puramente profana. Ma quale sarà il suo significato? Si tratta forse di un riferimento al coperchio (ebr. kappōret) dell’Arca dell’Alleanza, sulla cui sommità il sommo sacerdote aspergeva il sangue del capro espiatorio durante il rito del Kippur (come più volte si è sostenuto)? O è invece una generica allusione alla funzione espiatrice di Cristo? E in tal caso, quali sarebbero il soggetto e l’oggetto di una tale “espiazione”?
Sono tutte questioni che Penna affronta con grande perizia, sulla base di una profonda competenza lessicografica, e senza la pretesa di pervenire a una soluzione univoca. Grande attenzione egli riserva anche alla ricostruzione “logica” delle argomentazioni paoline (esemplari, in tal senso, le pagine dedicate ai vv. 1,17 e 4,15, valutati come entimemi: 140 ss. e 394 ss.), oltre che all’esame di alcuni luoghi classici del dibattito teologico, come i brani in cui l’apostolo sembrerebbe avallare la possibilità di una theologia naturalis (Rm 1,18-32: 167-203), o quelli relativi alla cosiddetta giustificazione derivante dalla fede (in particolare Rm 3,27-31 e 4,1-12: 346-360 e 367-390). Per quanto riguarda i primi, l’Autore si discosta da una consolidata tradizione esegetica: «L’affermazione paolina implica indubbiamente un atto di fiducia nelle possibilità della ragione e (…) costituisce “the key problem” per chi volesse negare una teologia naturale in Paolo» (ossia l’approdo a «qualità generiche del Divino, che sono la sua forza esercitata nel cosmo e la sua alterità rispetto ad esso»: 169), «anche se poi l’Apostolo prosegue col dire che gli uomini non hanno glorificato né ringraziato Dio come sarebbe necessario» (177); Penna non manca di far notare, inoltre, che l’apostolo si opporrebbe qui non tanto al «politeismo (che anzi altrove ammette come dato di fatto socio-religioso: 1Cor 8,5)», ma specificamente al culto degli idoli (182).
Per quanto riguarda invece lo spinosissimo problema della “giustificazione”, l’Autore parte da una robusta serie di domande: «Tutti sono giustificati per fede e dunque anche i gentili [nel senso di “pagani”, non di “etnico-cristiani”] sono inclusi? Oppure: i gentili sono chiamati da Dio alla pari dei giudei e dunque per questo entrambi sono giustificati per fede?» (365). Dopo un’attenta analisi dell’esposizione midrashica di Rm 4,1-25 (rilettura della vicenda biblica di Abramo e in particolare di Gn 15,6), e del suo ruolo nella struttura complessiva del testo epistolare, l’Autore perviene alla conclusione che «il percorso più probabile non va dall’esigenza dell’universalismo alla fede come suo sostegno, ma dalla fede alla sua necessaria conseguenza che è il superamento di ogni distinzione» (366).
Così, seppure in modo molto approssimativo, speriamo di aver fatto intuire l’indiscutibile ricchezza del lavoro. Ci riserviamo quindi lo spazio per alcuni rilevi critici. In alcuni casi, infatti, si ha come l’impressione che la spiccata sensibilità dell’Autore nei confronti della dimensione teologica, pur legittima e metodologicamente fondata, corra il rischio di compromettere una collocazione storicamente avveduta del discorso paolino. Ad esempio, riteniamo azzardate affermazioni come quella per cui Paolo, in Rm 1,23, scriverebbe da «iconoclasta o almeno da iconofobo», dimostrandosi «erede diretto e fedele di quella religione an-iconica che era ed è fondamentalmente il giudaismo» (186): emergerebbe in tal modo un’idea di giudaismo come entità compatta, quasi sovra-temporale. Né ci persuade il tratteggio dell’apostolo come campione di una «nuda fede in Cristo» (217), «in contrasto con un certo modo farisaico, esterioristico, di intendere l’adorazione religiosa nei termini di un culto fatto di pratiche rituali (…) o di norme di purità» (114): argomentazione cui soggiace un fuorviante contrasto fra interiorità ed esteriorità, e l’implicita assimilazione del fariseismo a insieme di pratiche religiose adempiute in maniera puramente formalistica.
Il commento, a volte, sembra inoltre lasciare sullo sfondo tutta una serie di interrogativi, soprattutto di natura terminologica, che coinvolgono categorie per le quali si auspica oggi da più fronti una profonda revisione (“giudaismo” e “cristianesimo”, in primis). In un recente contributo, apparso all’interno della raccolta Giudei o cristiani? I seguaci di Gesù in cerca di una propria identità (cur. G. Jossa, Paideia, Brescia 2004), lo stesso Penna ha avanzato l’ipotesi di una separazione assai precoce fra Chiesa e Sinagoga, proprio in ambiente romano e al tempo in cui Paolo scrive Rm: spiace che questo, nel commento, non affiori con la chiarezza che meriterebbe. L’Autore, infine, sembra tradire un certo disinteresse (o è scetticismo?) nei confronti della cosiddetta “New Perspective on Paul” (con la sola eccezione di J.D.G. Dunn, abbondantemente citato), o dei recenti approcci socio-culturali allo studio del cristianesimo nascente (come le ricerche del Context Group, da P. Esler a J. Neyrey). Ma siamo certi che un esegeta del calibro di Penna – affrontando la problematica sezione di Rm 9-11, nel vol. II dell’opera – non si lascerà certamente sfuggire l’occasione per un confronto esplicito e serrato con tutte queste prospettive attualmente emergenti, spesso centrate proprio sulla riconfigurazione del rapporto fra l’apostolo e il proprio contesto sociale e religioso.
[Recensione apparsa in Annali di Storia dell’Esegesi 23/1 (2006), pp. 187-191]