Uno scontro di civiltà antiche

Martin Goodman, Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche, trad. it. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2009, 744 pp. (or. Rome and Jerusalem: The Clash of Ancient Civilizations, Allen Lane, London 2007). 

Si può considerare la guerra giudaico-romana del 66-70, che condusse al tragico assedio di Gerusalemme e alla distruzione del Tempio, come il risultato di un antico clash of civilizations? È questo, in generale, l’interrogativo da cui parte il presente libro di Martin Goodman, professore presso la Facoltà di Oriental Studies dell’Università di Oxford.

«Perché si verificò questo disastro? C’era qualcosa di intrinseco nella società giudaica e in quella romana che rendeva impossibile per Gerusalemme e Roma coesistere? Le tensioni che ebbero quell’esito così drammatico, nell’agosto del 70, erano già visibili nel 30, quando Gesù predicò a Gerusalemme e poi vi morì per ordine di un procuratore romano? E, non appena i cristiani cominciarono a portare la loro fede fuori da Gerusalemme in tutto l’impero romano, quale fu l’effetto del conflitto fra Giudei e Romani sulle relazioni fra Giudei e cristiani?» (p. 28).

Dopo una prima e una seconda parte di carattere compilativo («Un mondo mediterraneo», pp. 29-176; e «Romani e Giudei», pp. 177-447), l’autore condensa l’esposizione di alcune tesi originali nella terza sezione del libro («Conflitto», pp. 449-665), anche avvalendosi dei risultati di ricerche affrontate in precedenza (si vedano soprattutto: M. Goodman, Mission and Conversion: Proselytizing in the Religious History of the Roman Empire, Oxford 1994; Id., Jews in a Graeco-Roman World, Oxford 1998; e Id., Modeling the “Parting of the Ways”, in A.H. Becker – A.Y. Reed [eds.], The Ways that Never Parted: Jews and Christians in Late Antiquity and the Early Middle Ages, Tübingen 2003, pp. 119-129).

La tesi “forte” di Goodman è che il mondo giudaico in cui Gesù visse e si trovò ad agire non fu, né mai si sentì (salvo rare eccezioni), oppresso da Roma: questo almeno fino all’anno 66, quando a Gerusalemme scoppiarono i primi tumulti anti-romani, imputabili soprattutto alla pessima amministratore di Gessio Floro, all’epoca procuratore della Giudea. Le tensioni che condussero al conflitto, spiega Goodman, dovrebbero essere valutate come il riflesso di una serie di colpi di Stato a Roma, e in particolare delle mire politiche di Vespasiano, il quale abbisognava, per la sua ascesa al potere, di un trionfo militare rapido e visibile: «non era la prima volta, né sarebbe stata l’ultima, che una guerra esterna veniva usata per mascherare imbarazzanti verità di politica interna romana, e pratiche analoghe non sono sconosciute nel mondo moderno» (p. 660).

Tra gli effetti più rilevanti di questa politica, oltre alle rivolte giudaiche del 115 e del 132 (tutte soffocate nel sangue), si può annoverare secondo Goodman anche la comparsa di un «antisemitismo cristiano», un «sottoprodotto dell’ormai secolare ostilità di Roma nei confronti dei Giudei». Questo spiegherebbe, in parte, anche la decisiva «separazione delle strade» fra giudaismo e cristianesimo, occorsa a partire dalla fine del I secolo più che altro per volontà degli stessi gruppi cristiani, i quali avrebbero avuto tutto l’interesse a non presentarsi come una mera “variante” del giudaismo, per non attirarsi ulteriormente il disprezzo del mondo romano, terreno irrinunciabile (e conteso) per la missione e la propagazione del proprio messaggio religioso.