Di ciò di cui non è possibile parlare, è impossibile tacere. E di ciò di cui è impossibile tacere, sembra parlare Gesù in un celebre passaggio del Vangelo secondo Matteo: «Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque dica una parola contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma per chi parlerà contro lo Spirito santo, non vi sarà perdono né in questo mondo né in quello futuro» (Mt 12,31-32).
C’è un peccato, quindi, che non può essere rimesso: è un peccato definitivo, e per ciò stesso indefinibile, perché su di esso sembra affondare, e di fatto volontariamente affonda, l’onnipotenza dell’amore di Dio. Tommaso d’Aquino, nelle due Summae, identifica questo peccato contro lo Spirito con la negazione della realtà. Tradizionalmente, da parte cattolica, si è invece soliti definirlo come disperazione della salvezza.
A me pare che le due cose siano in certo modo collegate, o che addirittura coincidano. Se è vero infatti che il peccato è una diminuzione di essere, del nostro essere, cosa potrà mai essere il peccato ultimo, il peccato irremissibile, se non l’esaurimento, la negazione, il rifiuto totale e incondizionato dell’essere stesso? Tale peccato, si afferma giustamente, non potrà essere rimesso né in questo mondo né in quello futuro: perché rifiuta la realtà e dell’uno e dell’altro. È una negazione dell’essere, in quanto realtà che non dipende da noi, e che non possiamo darci in alcun modo da noi stessi.
C’è un punto di vista per cui il soprannaturale è il reale in modo esatto: ed è ciò che propriamente si chiama grazia. Ora, in fondo, disperare della grazia non significa altro che disperare della realtà. Chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie. Al livello più elevato, il mistico comprende che tutto è grazia, e lo fa senza negare la grazia: agisce di conseguenza, come un fiore che sboccia. È il livello in cui si vive di amore accettato, sapendolo evitabile.