«Quando la Scolastica parla della bellezza, essa intende con questo un attributo di Dio»: così Ernst Robert Curtius, al paragrafo 3 del capitolo 12 di Medioevo europeo e letteratura latina, chiudeva il problema dell’esistenza di un’estetica (nel senso moderno del termine) medievale.
Gli rispondeva Umberto Eco, vent’anni dopo, nella sua tesi di laurea su Tommaso d’Aquino:
«E tuttavia la cultura medievale è ricca di documenti che ci mostrano come esistesse una attenzione verso il bello sensibile, la bellezza delle cose di natura e degli oggetti d’arte […]. Il “campo d’interesse estetico” medievale [era] enormemente più dilatato del nostro. Paradossalmente non è il medioevo che non aveva un’estetica: è il mondo moderno che ne ha una troppo angusta […]. Il medievale non riusciva a distinguere (sul piano terminologico) tra un sentimento di ammirazione provato di fronte a un tramonto o alla grandezza di Dio, e il sentimento di ammirazione provato di fronte a una statua (che noi reputeremmo oggi “opera d’arte”) e la bellezza di un bel vaso di porfido (che noi reputeremmo oggi “opera d’artigianato”). Tutto questo è indiscutibile, e basterebbe il campo semantico coperto dal termine ars, giusta l’uso greco, per convincersene. Ma affermare che in una data epoca la categoria dell’esteticità era più diffusa (estensionalmente parlando), di quanto non lo sia oggi, non significa affatto che non esistesse la nozione (e il sentimento vissuto) dell’esteticità. Si dovrà al massimo parlare di un modello culturale in cui i valori (che per noi sono distinti) appaiono integrati, come bellezza e bontà mortale erano integrati nella nozione greca di kalokagathìa» (U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Bompiani, Milano 1970, pp. 22 e 28).
Per lo stesso Tommaso, in effetti, la possibilità di un diletto completamente estraneo al godimento tattile (cioè di un piacere “estetico”) è esclusiva dell’uomo in quanto animale razionale. Così, mentre a riguardo dei sensi esiste un dovere di temperanza, con questo tipo di piacere cade ogni esigenza di controllo:
Homo autem delectatur secundum alios sensus non solum propter hoc, sed etiam propter convenientiam sensibilium. Et sic circa delectationes aliorum sensuum, inquantum referuntur ad delectationes tactus, est temperantia, non principaliter, sed ex consequenti. Inquantum autem sensibilia aliorum sensuum sunt delectabilia propter sui convenientiam, sicut cum delectatur homo in sono bene harmonizato, ista delectatio non pertinet ad conservationem naturae. Unde non habent huiusmodi passiones illam principalitatem ut circa eas antonomastice temperantia dicatur (S. Th. IIa IIae, q. 141 a. 4 ad 3).
Da qui, ma non solo da qui, deriva la polemica sull’inserimento o meno del pulchrum nel novero dei trascendentali, cioè delle proprietà intrinseche dell’Essere. L’elenco discusso da Tommaso nelle questioni De Veritate, composte tra il 1256 e il 1259, comprende infatti unum, res, ens, aliquid, bonum, verum, ma non considera pulchrum.
La trascendentalizzazione del Bello si affaccia più tardi, nel commentario a Dionigi Areopagita, rivelando una sorta di entusiasmo e di ottimismo estetico nei confronti del cosmo, quasi un corrispettivo dottrinale del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi, dove il Signore è «laudato per» (ossia attraverso) le sue creature. La bellezza reperibile nelle cose, in tutte le cose, non è più semplicemente riflesso, bensì partecipazione di un bello che si identifica in definitiva con l’Essere: Dio è supersubstantiale pulchrum, ed è detto Bellezza quod omnibus entibus creatis dat pulchritudinem, secundum proprietatem uniuscuiusque.
Maritain, com’è noto, affrontò la faccenda in Art et scolastique, definendo il Bello come «la splendeur de tous les transcendentaux réunis»: forzatura ed eccesso interpretativi, certamente, ma quanto mai felici.