François Cassingena-Trévedy, Te igitur. Le missel de saint Pie V, Ad Solem, Genève 2007, 94 pp. // Manlio Sodi, Il Messale di Pio V. Perché la Messa in latino nel III millennio?, Edizioni Messaggero, Padova 2007, 48 pp.
– Eminenza, perché continuate a fissare
lo specchietto retrovisore? Finiremo per schiantarci!
– Shh. Dobbiamo seguire il Concilio…
Entrando in una libreria cattolica, in questi giorni, si rimane subito colpiti dalla quantità di pubblicazioni, spesso libricini di modeste dimensioni e di taglio divulgativo, dedicati al Motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI, sulla liberalizzazione del Messale di rito tradizionale, e generalmente critici nei suoi confronti. Uno di questi porta la firma del salesiano Manlio Sodi, e si intitola Il Messale di Pio V. Perché la Messa in latino nel III millennio? Qualora non bastasse il titolo (di per sé improprio e piuttosto superficiale), la scheda informativa approntata nel sito dell’editore è ancora più eloquente (si presti attenzione all’uso delle virgolette):
Contenuto. Papa Benedetto XVI ha approntato il “motu proprio” col quale “ripristina” la messa in latino. La “novità” è che il “motu proprio” rende possibile celebrare la messa col Messale in uso prima del Vaticano II e riformato secondo il concilio di Trento (1570) e solamente “aggiornato” nell’edizione promulgata da papa Giovanni XXIII (1962). Non tutti hanno chiari i termini della questione. Il noto direttore di “Rivista Liturgica”, don Manlio Sodi, ci aiuta con la sua riconosciuta chiarezza e competenza a entrare nella problematica storica e teologica e ci fa capire – nel rispetto delle opinioni di tutti e al di là di ogni scontata polemica – la portata dell’evento.
Destinatari.Tutti.
In qualità di membro di quei «tutti», mi permetto allora di lasciare al lettore alcune osservazioni suscitate dalla lettura del volume e dal dibattito al quale intende offrire un contributo, «nel rispetto delle opinioni di tutti e al di là di ogni scontata polemica».
Il volumetto di Sodi è strutturato in quattro brevi capitoli e una conclusione. Nei primi due capitoli, l’autore presenta sommariamente il contenuto e la struttura dei due testi necessari per la celebrazione della Messa, vale a dire il Lezionario (che raccoglie l’insieme delle letture bibliche scelte per la celebrazione) e il Messale (che comprende «tutto ciò che serve per la Messa»: il canone, le varie preghiere, le indicazioni per i canti, le formule di benedizione, etc.), fornendone poi, per rapidi cenni, la «storia avvincente». Il terzo capitolo è dedicato alle principali (anzi, «vere») novità del Messale del Concilio Vaticano II, mentre il quarto capitolo interviene finalmente sull’attualità, con una serie di osservazioni intorno al Motu proprio e alla lettera di accompagnamento del papa.
Già dalle prime righe, si ha l’impressione che chi scrive intenda sviare il proprio lettore, verso una direzione molto diversa da quella auspicata da Benedetto XVI nel suo documento. Si dice infatti: «Sarà forse questione di lingua latina? Di ritorno alla liturgia in latino, come è stata per circa 15 secoli? Ma anche l’attuale Messale può essere usato nel testo originale, che è in lingua latina! Dov’è dunque il problema?» (p. 8).
Queste domande, in realtà, sono lasciate senza risposta, anche perché non sono le giuste domande. Sodi sa bene che non si tratta affatto di un “ritorno” alla lingua latina, altrimenti i sostenitori del Rito “pre-conciliare” (che non sono tutti lefebvriani!) si sarebbero semplicemente battuti, in tutti questi anni, per l’utilizzo del Novus Ordo in latino. Né rientra fra le intenzioni di Ratzinger il ripristino del latino, o un (impensabile) abbandono della liturgia nelle lingue locali.
Poche pagine più avanti, l’autore scrive che, «come il Concilio di Trento si preoccupò di riformare la liturgia e di accentuarne la dimensione sacrificale negata dai Protestanti, così il Vaticano II ha stabilito una riforma per dare all’esperienza liturgica quella ricchezza che in parte si era perduta nella tradizione e che il movimento liturgico, unitamente al movimento biblico e catechistico, aveva suggerito. Pur voluta dal Concilio, pur elaborata da persone competenti, pur con risultati eccellenti, la riforma liturgica non fu da tutti ben compresa e accolta» (p. 16). In realtà sappiamo benissimo che la riforma liturgica non provenne direttamente dal Concilio, ma fu un effetto delle riflessioni post-conciliari, e che travalicò ampiamente le disposizioni espresse nella Costituzione apostolica sul tema della liturgia (la Sacrosanctum Concilium, del 1963).
È significativo, mi pare, quell’accenno alle “persone competenti”, che a fin di bene e congiuntamente col “movimento biblico” e col “movimento liturgico”, si sarebbero adoperate per il recupero di «quella ricchezza che si era perduta nella tradizione». Significativo per due motivi.
Il primo è l’implicita valutazione negativa della “tradizione”, che non è più un orizzonte ermeneutico e storico al quale ci si richiama e si appartiene, ma è ciò che separa l’osservatore, la “persona competente”, dalla mitica purezza di un’origine. La tradizione è percepita insomma come un ostacolo, come qualcosa di puramente estrinseco rispetto a una concezione essenzialistica della fede e della liturgia. Seguendo un tale principio, di fatto, nulla impedirebbe fra dieci o cent’anni di dichiarare anche l’attuale riforma liturgica come inadeguata a una presunta ricchezza originaria, o di abbandonarla come un vecchio rottame: ma Sodi sarebbe disposto ad ammetterlo?
Un secondo motivo è costituito dall’accenno alle “persone competenti”, tra le quali l’autore, ovviamente e giustamente, si include. Il ritornello della competenza è un’evidente traccia di “clericalismo”: da una parte il popolo, dall’altra chi lo educa (e chissà che non venga da qui, dalla centralità conquistata dall’omelia nel rito attuale, il fastidio che certi sacerdoti provano nei confronti dell’antico Messale, dove lo spazio riservato al celebrante era più uno spazio di mediazione che di “protagonismo”): non c’è l’idea che entrambi possano condividere uno stesso Spirito, o le medesime responsabilità. Perché per capire lo Spirito occorre la competenza.
Lo si intuisce meglio più avanti, allorquando l’autore si sofferma appunto sui difetti del Messale detto tridentino. Questo in realtà non venne pubblicato durante il concilio, ma successivamente, nel 1570, sebbene i padri conciliari ne avessero auspicato con forza una riforma. «E per fortuna – commenta Sodi – perché certi lavori vanno fatti con attenzione e tranquillità, da parte di persone competenti». Singolare proiezione retrospettiva di quanto avvenuto dopo il Concilio Vaticano II: i padri, in quell’occasione, non avrebbero avuto la competenza per fare quello che soltanto le “persone competenti” avrebbero potuto fare. Altrove, a p. 27, l’autore contesta la denominazione del Rito tradizionale come “Messale del Concilio di Trento” o “di san Pio V” (scelta da lui stesso, si badi bene, per il titolo del volume): «Ma il Messale non è della Chiesa? E allora perché nominarlo con un papa?». Osservazione corretta, ma speciosa: si tratta infatti di una denominazione approssimativa, peraltro invocata dagli stessi detrattori dell’antico Messale, proprio con l’intento di ancorarlo a circostanze storiche superate.
A conti fatti, sulla base di questi pochi indizi, non sembra che il volume di Sodi renda un buon servizio per la comprensione del problema liturgico oggi oggetto di discussione. Si presenta per lo più come una pubblicazione apologetica. La liberalizzazione voluta dal papa, a detta dell’autore, riaprirebbe problemi già ampiamente risolti, perché i “competenti” hanno stabilito che va tutto bene. Dunque va tutto bene. I semplici fedeli dovrebbero adeguarsi: senza discutere, senza confrontarsi, senza aprire dibattiti – nemmeno su invito del papa. Ma a me pare che la sostanza del documento pontificio possa e debba essere interpretata in maniera completamente diversa. Il senso del motu proprio, come ha spiegato lo stesso pontefice, non può essere quello di un semplice “passo indietro” rispetto alle istanze del Concilio Vaticano II: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum [quella del 1962, oggi “liberalizzata”, e quella ordinaria, entrata in vigore con Paolo VI, nel 1969]. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso».
La puntualizzazione è importante, e apre a ulteriori riflessioni: non tanto sui motivi che hanno spinto negli anni Sessanta alla liquidazione dell’antico Messale, quanto sulla necessità di una “riforma della riforma”, oggi auspicata da più voci all’interno del mondo cattolico. Una di queste è rappresentata da un altro libro recente, che si deve al liturgista benedettino François Cassingena-Trévedy, Te igitur. Le missel de saint Pie V (Ad Solem, Genève 2007). L’autore parte da alcune domande che coinvolgono gli affezionati alla Messa chiamata anche qui impropriamente “di Pio V”: com’è possibile tutto questo attaccamento, da parte di molti, al Rito tradizionale? Perché lo si rivendica con forza? E passa a indicare quelle che, a suo giudizio, sarebbero le ragioni di una tale ostinazione liturgica: l’angoscia identitaria, i timori del futuro, l’incapacità di passare «da un’età all’altra» nella vita della Chiesa. Si tratta di una diagnosi valida soprattutto per molte prese di posizione diffuse presso gli ambienti cattolici tradizionalisti: è difficile dissentire dall’analisi di Cassingena-Trévedy, quando rileva che la passione per l’antico Messale è molto spesso segnale di una sorta di dandysmo religioso, di un «esotismo rituale» la cui soddisfazione «è un lusso, perché le cose “all’antica”, inevitabilmente ricostruite, sono oggi appannaggio e indizio di un lusso, più che di una reale necessità» (p. 56).
Nondimeno, questa “necessità”, questo senso di privazione d’un tesoro, sono avvertiti con forza non soltanto tra le fila dei tradizionalisti. Come notato ancora da Benedetto XVI, «molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa».
Cassingena-Trévedy ha quindi indubbiamente ragione quando scrive (e siamo nel febbraio di quest’anno) che, «nel caso in cui la messa tridentina tornasse effettivamente all’ordine del giorno, dovremmo accogliere la cosa ecclesialmente, vale a dire non come una concessione fatta a rivendicazioni identitarie o puramente soggettive […] né come un elemento di disturbo delle nostre abitudini ormai acquisite, ma come un laboratorio teologico, come un esercizio spirituale» (p. 90). «Siamo tutti legati al messale tridentino – continua il benedettino – e dobbiamo esserlo, nella comunione diacronica di tutta la Chiesa, dato che non si può in alcun modo essere cattolici senza riconoscersi parte di una storia, e senza abitare questa storia come un dono di Dio» (p. 85).
I problemi, però, sorgono non appena si consideri il carattere “totale” della liturgia. Tutto, nella liturgia, “fa sistema”: e il ritus servandus, cioè l’insieme dei gesti e delle parole che compongono il rito, non può essere disgiunto dagli elementi dei quali è viva espressione: elementi, nota sempre Cassingena-Trèvedy, di natura teologica, devozionale, sociale, estetica. Negli anni del post-Concilio, liturgisti e teologi si affrettarono ad emettere una sentenza capitale nei confronti del Messale antico, proprio a partire da questi elementi: ora il motu proprio vorrebbe rimediare ai guasti di una “giustizia sommaria”, invitando i credenti a riappropriarsi di un patrimonio spirituale che ha nutrito intere generazioni di fedeli. E invitandoli anche a valutare, a partire da esso, i frutti del Messale nuovo, e se necessario a correggerne le eventuali mancanze.
Come ciò potrà accadere, e con quali tempi, è difficile dirlo. Oggi i problemi del cattolicesimo sono tanti, e non sembra che le questioni liturgiche appassionino i fedeli come forse meriterebbero. Ma forse questa è un’ulteriore spia di quel processo di disaffezione e di passività che sembra contraddire le magnifiche sorti di actuosa participatio che il Concilio aveva auspicato per i laici.
Vorrei quindi concludere queste mie note con due osservazioni provocatorie. La prima proviene da quell’acutissimo sociologo della cultura che fu Marshall McLuhan, il quale al principio degli anni Sessanta osservò quanto segue:
«Se una tecnologia viene introdotta in una cultura sia dall’interno sia dall’esterno, e se provoca una nuova accentuazione o supremazia di uno o dell’altro dei nostri sensi, allora il rapporto tra tutti i sensi ne risulta alterato. Noi non sentiamo più nello stesso modo, né i nostri occhi e orecchi e gli altri sensi rimangono gli stessi. L’intreccio dei sensi è costante eccetto in condizioni di anestesia. Ma ognuno dei sensi quando venga acutizzato ad un alto livello di intensità può fungere da anestetico nei confronti degli altri sensi» (La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico [1962], trad. it. di S. Rizzo, Armando, Roma 1976, p. 50).
McLuhan intuì (e si trovò anche a scriverlo) che non sarebbe stata l’abolizione del latino ad anestetizzare la liturgia cattolica, quanto piuttosto l’impiego acritico del microfono. Vedeva in questo, come in altre cose, una potenziale minaccia per l’intreccio liturgico dei sensi (la “sinestesia”), segno di quel profondo realismo che secondo lui avrebbe contraddistinto, fino ad allora, proprio la concezione “cattolica” del mondo.
L’oscillazione fra anestesia e sinestesia mi sembra una chiave decisiva per rileggere la questione liturgica che giace oggi sul tavolo degli specialisti. Penso in particolare ai tre significati che qualunque dizionario della lingua italiana registra per il verbo “animare”, tanto spesso invocato dai sacerdoti quando invitano i fedeli a partecipare attivamente alla Messa:
- Dare, infondere l’anima.
- Dare vita, vivacità, energia, calore.
- Incitare, esortare, infondere coraggio.
Si può dunque “animare”, a seconda dei casi, un cadavere o un oggetto inanimato, una realtà debole o privata delle sue forze, una persona o un insieme di persone che si trovano in una situazione difficile o che semplicemente abbisognano d’aiuto: animare un corpo, un blocco di marmo, un volto, un’impresa, Gina Lollobrigida o un gruppo di ragazzotti annoiati.
Sarebbe interessante riflettere sul quando, e sul perché, si sia cominciato ad applicare l’immagine al contesto della liturgia.