Jacob Taubes amava raccontare di quando un suo giovane studente di filosofia, a Berlino, gli si presentò davanti con un capitolo di tesi sull’uso delle Scritture in Walter Benjamin. Constatate le numerose imprecisioni presenti nel testo, Taubes consigliava al ragazzo di dedicarsi a una lettura approfondita della Bibbia, invece di continuare a perdere tempo sulle pagine di Hegel. Il giovane, da buon benjaminiano, gli chiese allora quale traduzione della Bibbia fosse da preferirsi. «Oh, per lei andranno bene tutte», fu la replica sarcastica.
Ebbene, posto dinanzi a un simile quesito, e fuor di battuta, io non riuscirei ad essere così burbanzoso. Passi dunque la traduzione ufficiale della CEI, che si trova indifferentemente nelle due migliori edizioni attualmente in commercio in Italia (La Bibbia di Gerusalemme e la TOB), e passi pure la Nuovissima versione dai testi originali, interamente curata da un’équipe di studiosi italiani. I problemi cominciano davvero quando si arriva, ad esempio, a cose come la “Versione in lingua corrente” pubblicata dalle edizioni LDC di Torino.
Tradurre in lingua corrente, per i curatori di questa edizione, significa spesso, di fatto, privare il testo di qualunque traccia non solo di distanza culturale, ma anche di colore e di sapore. Tutto viene semplificato, per correre incontro alle esigenze di un fantomatico “lettore medio”. Prendiamo il testo dei vangeli: in luogo del Sinedrio, il lettore troverà un generico tribunale, e al posto dei centurioni vedrà soltanto “soldati romani”… Il piacere del testo, che risiede anche nella sua dimensione enigmatica, nel suo irriducibile essere “altro”, svanisce di colpo assieme al sacrosanto desiderio di arricchire il proprio patrimonio lessicale e concettuale. Col proposito di fornire un testo più accessibile, l’opera stessa finisce per perdere il proprio spessore, e la spiegazione di essa passa attraverso la tacita negazione che vi sia ancora qualcosa da spiegare.
Non si pensi neppure che la resa finale abbia una certa qual semplice bellezza. A titolo di esempio, basterebbe confrontare il saluto dell’Angelo a Maria, al versetto 1,28 del Vangelo di Luca. L’originale greco dice: Châire, kecharitoméne, ho kýrios metà soû. La versione CEI lo rende in maniera asciutta e quasi letterale: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». La Nuovissima Versione ha una forma molto simile: «Salve, piena di grazia, il Signore è con te». Il vecchio Diodati, comprensibilmente, traduce in pompa magna, con effetti che oggi suonano abbastanza comici: «Ben ti sia, o tu cui grazia è stata fatta; il Signore è teco». Le due versioni “in lingua corrente”, invece, rendono il tutto in questo modo involuto (e assai poco economico): «Ti saluto, o Maria! Il Signore è con te: egli ti ha colmata di grazia»; e «Ti saluto! Il Signore è con te; egli ti ha dato la sua grazia in abbondanza».
Tutto sommato, però, ci è andata ancora bene. Fossimo stati inglesi o americani, potevamo passare dal «Hail, thou that arthighly favoured, the Lord iswith thee» della solenne King James Version (1611/1769) a un’escalation di orrori: dal prolisso «Peace be with you, to whom special grace has been given; the Lord is with you» (The Bible in Basic English) al benaugurante «Greetings, favored one! The Lord is with you» (New Revised Standard Version), dallo scanzonato e canterino «Be happy! God has blessed you! The Lord is with you!» (Worldwide English) al francamente sciapo «You are honored very much. You are a favored woman. The Lord is with you» (New Life Version), fino al raccapricciante «Good Morning! You’re beautiful! Beautiful inside and out! God be with you» (New Living Translation).
È forse a scelte come quest’ultima che si riferiva Henri-Irenée Marrou, in un passo del suo capolavoro De la connaissance historique (1955). Polemizzando con un esegeta americano, che nella sua versione del Nuovo Testamento aveva reso il saluto châirete con good morning o goodbye, lo storico francese indicava quanto una simile traduzione potesse costituire un vero e proprio affronto ai danni dell’autore. Ma anche, e soprattutto, un inganno nei confronti del lettore, cui vien fatto credere che autori quali Paolo e Matteo scrivessero come anglofoni del XX secolo:
«Mentre invece la loro era la lingua greca del primo secolo, una lingua in cui per salutarsi non si barbugliavano formule incomprensibili – How d’y’ do o Byebye – come usano oggi gli Anglosassoni, ma si diceva chiaramente e a voce alta: “Rallegrati” [châire]. E che Paolo e Matteo avessero avuto pienamente coscienza di questo senso che assumeva il châire o châirete, lo dimostra la Lettera ai Filippesi (4,4): “Rallegratevi nel nome del Signore, daccapo vi dico, rallegratevi nel Signore”; saluto codesto di cui vanamente si cercherà di rendere il senso traducendolo: “goodbye… again I say, goodbye!”» (H.-I. Marrou, La conoscenza storica, trad. it. di A. Mozzillo, il Mulino, Bologna 1988, p. 37).