Optimisme tragique

Il grande Georges Bernanos diceva che quello dei cristiani è un optimisme tragique, un ottimismo tragico. Bernanos, ovviamente, alludeva alla redenzione: per cui la croce è una tragedia, che però prelude a un lieto fine. Ma possiamo qualificare tutto questo come “ottimismo”?

Le alternative, lo sappiamo, sono quelle del vicolo cieco o del circolo chiuso: l’esistenza come caducità o l’esistenza come ripetizione. Sarebbe facile, per un credente, criticare queste opposte visioni partendo dall’idea di redenzione: qualcosa è accaduto, il ciclo si è spezzato, c’è un punto di leva esterno al mondo che permette di sollevare il mondo… Questa critica, tuttavia, potrebbe essere sempre tacciata di antropocentrismo, perché parte dall’accettazione di una premessa schiettamente “umana”. E la premessa è che la percezione soggettiva della vita, come limitata dalla morte e dunque ansiosa di poter superare la propria finitezza, abbia un qualche valore oggettivo di verità (la scienza moderna, si dice, eliminerebbe quest’assurda pretesa di proiettare le proprie ambasce sul cosmo, facendone criterio di conoscenza).

Non è un caso, da questo punto di vista, che i primi tentativi di sistemazione catechetica della fede cristiana siano stati fatti partire proprio dall’idea di creazione, o per meglio dire dalla questione dell’essere (si veda già il discorso di Paolo all’Areopago, al capitolo 17 degli Atti degli apostoli): senza un corretto intendimento dello stato creaturale dell’uomo, e della sua partecipazione all’essere, non ci sarebbe stato spazio per un corretto intendimento della redenzione. Agostino lo fa capire con molta chiarezza, nel suo manuale De catechizandis rudibus: «La catechesi comincia dal versetto In principio Dio creò il cielo e la terra» (3,5). E anche l’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica comincia con l’esposizione dei praeambula fidei, delle premesse razionali sulle quali deve innestarsi la fede: annoverando tra queste, comprensibilmente, l’accettazione dell’esistenza di Dio. Ancor più che nell’idea di redenzione, infatti, è qui che i cristiani possono trovare quel “punto di leva esterno al mondo che permette di sollevare il mondo”: in uno sguardo aperto a ciò che eccede e trascende la finitezza dell’uomo, rivelandone lo stato “creaturale”.

Partendo da qui, anche la considerazione del male, sovente invocata per negare l’esistenza di Dio, può essere collocata tra le percezioni soggettive, e dunque parziali, dell’uomo. Il perché lo spiega Tommaso d’Aquino, con una frase che mi ha sempre colpito per la sua potenza, degna di un koan orientale: «Non esiste un male che corrompa totalmente il bene; poiché almeno il soggetto in cui il male risiede è un bene». La frase di Tommaso presuppone, come condizione necessaria per riconoscere il male, l’accettazione della costitutiva positività dell’essere, o in termini più semplici, della naturale bontà di ciò che è.

Lo “spirito della filosofia medievale”, mirabilmente descritto da Étienne Gilson in un suo celebre volume, indica com’è noto questa intrinseca positività attraverso l’esposizione della dottrina dei trascendentali. Nella concezione tomista, l’essere è trascendente perché trascende, letteralmente va oltre, tutti i settori parziali nei quali la realtà può essere suddivisa. E questa sua caratteristica deriva dalle sue proprietà strutturali, dai suoi aspetti (dal lat. ad-spectum, essere visto, essere colto) detti appunto trascendentali. L’Aquinate, al principio delle sue Quaestiones disputatae de veritate, ne enumera cinque: unum (l’essere nel suo rapporto di identità/differenza), verum (l’essere come conoscibile e conosciuto), bonum (l’essere come amabile e amato), aliquid (l’essere nella sua concretezza) e res (l’essere come dotato di realtà, non come semplice apparenza). Sulla base di alcune citazioni dello pseudo-Dionigi Areopagita, più volte oggetto di analisi da parte di Tommaso, si è discussa la possibilità di aggiungere all’elenco tradizionale dei trascendentali anche pulchrum, che esprimerebbe l’armoniosa bellezza del disegno unitario dell’essere, potremmo dire la sua “gloria”.

È importante capire a cosa conduca una simile concezione, in rapporto al tema del male. Da un punto di vista esistenziale, potremmo partire dall’idea che la coerenza dei trascendentali si frantuma inevitabilmente nella nostra percezione del reale: noi conosciamo il vero, ammiriamo il bello, desideriamo il bene, ma abbiamo la possibilità di frantumare i trascendentali; e questo è propriamente il nostro limite. Da un punto di vista più oggettivo, invece, potremmo partire dall’idea che la negazione dei trascendentali ci avvicina al non essere. Vale a dire che potremmo pensare al male non come a qualcosa che semplicemente non esiste, ma come a una mancanza, una frattura nel tessuto dell’essere. Come il brutto non sarebbe altro che un “bello ferito” e il falso un “vero ferito”, così il male non sarebbe altro che un “buono ferito”.

Tutto ciò fa venire in mente, per contrasto, una novella dello scrittore scozzese Arthur Machen, The White People (pubblicata nella raccolta Tales of Horror and Supernatural, del 1904). Machen faceva parte di una celebre società segreta di ispirazione rosacrociana, The Hermetic Order of the Golden Dawn, che contava fra i suoi membri romanzieri come Edward Bulwer-Lytton, poeti come William Butler Yeats, occultisti come Aleister Crowley (grande amico di Fernando Pessoa; il suo ritratto campeggia peraltro nella copertina dell’album Sgt. Pepper dei Beatles). Machen, insomma, era uno che di male se ne intendeva, e che ne subiva la profonda fascinazione. Si prenda questa affermazione del protagonista di The White People:

«Voi cadete nell’errore frequente di coloro che limitano il mondo spirituale alle regioni del bene supremo. Gli esseri estremamente perversi fanno anch’essi parte del mondo spirituale. L’uomo comune, carnale e sensuale, non sarà mai un gran santo. Né un gran peccatore. Noi siamo, per la maggior parte, soltanto esseri contraddittori e, tutto sommato, trascurabili. Seguiamo la nostra strada di fango quotidiano, senza capire il significato profondo delle cose, ed è per questo che il bene e il male, in noi, sono identici: occasionali, senza importanza… Coloro che sono grandi, nel bene come nel male, sono quelli che abbandonano le copie imperfette e vanno verso gli originali perfetti…».

Più avanti nel testo, sempre il protagonista chiarisce la propria concezione di peccato, che consisterebbe in un voler prendere d’assalto il cielo:

«Il peccato per me consiste nella volontà di penetrare in modo vietato in una sfera diversa e più alta. Ecco perché è così raro. Pochi uomini, in verità, desiderano penetrare in altre sfere, siano alte o basse, in modo consentito o vietato… Forse è più difficile diventare un gran peccatore che un gran santo… La santità esige un grandissimo sforzo, o quasi, ma è uno sforzo che si esercita per vie che nel passato erano naturali. Si tratta di ritrovare l’estasi che l’uomo conobbe prima della caduta. Ma il peccato è un tentativo di ottenere un’estasi e un sapere, che non sono, e non sono mai stati dati all’uomo, e chi tenta questo diviene demone… È un’estasi dell’anima, qualcosa che supera i limiti ordinari dell’intelletto, che sfugge alla coscienza».

Al fondo di queste parole, troviamo una profonda (e forse cosciente) inversione rispetto alla prospettiva cristiana sul male che abbiamo descritta più sopra. Si tratta di un’inversione che Pavel Florenskij ha descritto in modo mirabile nel suo capolavoro La Colonna e il fondamento della verità, un’opera composta in quello stesso giro d’anni per rispondere a sollecitazioni molto simili a quelle evidenziate dal testo di Machen. Riporto alcuni passaggi del testo di Florenskij:

«L’autoaffermazione della personalità, la sua contrapposizione a Dio è la fonte della frantumazione, della decomposizione della persona, dell’impoverirsi della sua vita interiore; solo l’amore [l’agápe] riporta fino a un certo punto la persona all’unità. Ma se una persona, già parzialmente decomposta, non si dà pace e vuole essere Dio (“come dèi”) diventa inevitabilmente vittima di frazionamenti e decomposizioni sempre più incoercibili e reiterati. Questo è il significato ontologico del mito [della caduta, del peccato delle origini]. E noi non vediamo forse davanti ai nostri occhi come si frazionino e decompongano fino ai precordi le società  e le persone che vogliono vivere senza Dio, e regolarsi senza di Lui, autodefinirsi contro di Lui? La follia, questo disintegrarsi della personalità, non è essenzialmente una conseguenza della profonda deformazione spirituale di tutta la nostra vita? La nevrastenia in continuo aumento e le altre malattie “nervose” non hanno forse la loro vera causa nella tendenza dell’umanità e delle persone a vivere a loro modo, non secondo Dio, a vivere senza la legge di Dio, nell’anomia?

[…] La personalità senza amore (e prima di tutto è necessario l’amore di Dio) si disintegra nella frammentarietà degli elementi e dei momenti psichici. […] Il peccato è il momento del disordine, della decomposizione e della rovina della vita interiore. L’anima perde la propria unità sostanziale, la coscienza della propria natura creatrice, e si perde nella bufera caotica dei suoi stessi umori, cessando di esserne la sostanza e l’essenza. L’io affonda nel “torrente mortale” delle passioni. […] L’anima peccatrice è un’“anima perduta” per gli altri e per se stessa, perché non ha saputo riguardarsi. La psicologia contemporanea continua ad asserire di non riconoscere l’anima come sostanza, ma così non fa che rivelare la situazione morale degli psicologi che in gran parte sono, a quanto pare, “uomini perduti”. In questo caso effettivamente non “io faccio”, ma “si fa di me”, non “io vivo”, ma “mi accade”.

Nella misura in cui nella coscienza si spegne la creatività, l’attività e la libertà, processi meccanici nell’organismo fanno retrocedere la personalità la quale investe il mondo circostante proiettando all’esterno le conseguenze della propria debolezza. […] L’anima perde la propria libertà, i peccati assediano il cuore, si pongono accanto a lui in fitta schiera, ne proibiscono l’accesso e non vi lasciano penetrare la brezza rinfrescante della grazia. […] Come la bellezza della creatura sta proprio nel “rimanere nell’ordine”, così anche la sua bontà e la sua verità. Invece la deviazione dall’ordine è bruttezza, male, menzogna. Tutto è bello e buono e vero quando è “secondo l’ordine” [katà táxin: 1Cor 14,40]; tutto è brutto, male e falso quando è arbitrario, autonomo, autocefalo: “di propria testa”. Il peccato è esattamente un’azione “a modo suo”, e Satana è l’a modo suo» (P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, trad. it. di P. Modesto, Rusconi, Milano 1998, pp. 223-225 e 227-228).

Florenskij, sempre nella Colonna, fa notare come si possa accostare «il termine russo grech (peccato) a ogrech (cilecca), cosicché peccare significa sbagliarsi, mancare il colpo e il bersaglio, fare cilecca, mancare» (ibid., p. 230). È curioso ch’egli non abbia rilevato l’accordo fra questa etimologia, pur con tutte le sue incertezze, e quella sicuramente valida per il greco e l’ebraico: dove rispettivamente peccato si dice amartía (dal verbo amartáno: “mancare il bersaglio”) e Torah (“insegnamento”, “legge” di Dio) viene fatto derivare dal verbo yârâh (“centrare il bersaglio”). Così peccare significa mancare, mancare di fronte all’essere, mancare l’essere, e in ultima analisi mancare di essere.

Anche questo è ottimismo tragico? Può darsi. Ma tra tutti gli ottimismi in circolazione, mi ostino a pensare che sia tra quelli che fanno meno male.