Con gli occhi di Beatrice

Horia-Roman Patapievici, Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante?, trad. it di S. Bratu Elian, Bruno Mondadori, Milano 2006, 112 pp.

Com’era davvero il mondo di Dante? È a questo interrogativo che cerca di rispondere un breve saggio di Horia-Roman Patapievici, Gli occhi di Beatrice, apparso originariamente in Romania nel 2004. L’autore, già docente di Fisica all’Università di Bucarest, non è uno “specialista” di Dante, né pretende di affiancarsi in tali vesti all’abbondante bibliografia dantesca: il suo è un approccio da dilettante – nel senso migliore della parola – tanto più fecondo quanto più umile e in grado di illuminare, da una prospettiva inconsueta e in parte inedita, il multiforme universo poetico e speculativo della Commedia. «Con l’espressione “il mondo di Dante” – chiarisce Patapievici nelle prime pagine – intenderemo il mondo dantesco, cioè la totalità dell’esistente così com’era concepita non tanto ai tempi di Dante, quanto da Dante stesso». Ma chiedendosi come fosse davvero, questo mondo, l’autore intende in primo luogo evidenziare la differenza che sussiste fra il modello di universo immaginato e forse visto da Dante, e quello corrente nella sua epoca, ossia l’immagine antico-medievale del cosmo, che il coltissimo Poeta sicuramente conosceva in maniera profonda (si pensi solo alla Quaestio de aqua et terra, composta intorno al 1320).

L’immagine comune del cosmo, al tempo di Dante, era quella di un insieme armonico di nature distinte, ordinate in modo gerarchico dal basso verso l’alto: i quattro elementi materiali; una successione di sfere concentriche rappresentanti i cieli; e il cosiddetto Empireo, ovvero la dimora, fuori dal tempo e dallo spazio, di Dio, delle schiere angeliche e dei beati. «Qualsiasi uomo medievale – osserva Patapievici – sapeva di cosa si trattava», a differenza di quanto accade ai moderni, «che non si riconoscono in alcuna immagine cosmologica familiare». L’ipotesi del libro, ad ogni modo, è che la cosmologia dantesca, e in particolar modo quella sottintesa dagli ultimi canti del Paradiso, nasconda una visione dell’universo originale e matematicamente coerente. Il punto, allora, è se essa sia visivamente immaginabile. Colpisce, nella trattazione, quest’insistenza sull’imprescindibile dimensione visionaria (e cattolica) della Commedia: un assunto che molta critica volentieri squalifica o sottace, preferendovi qualunque altra chiave ermeneutica, ma che trova sempre nuove conferme ad ogni tentativo di lettura sistematica e integrale del poema. Il riferimento di Dante all’apostolo Paolo – «lo Vas d’elezïone» che salì col corpo o senza corpo al terzo cielo (Inf. II, 28-32; cf. At 9,15) – non va inteso come un semplice tributo letterario: del resto, sappiamo che il tema della visio Pauli influenzò il Poeta anche attraverso la fortunatissima Apocalisse di Paolo, un testo conosciuto già nel III secolo, e a lungo ritenuto canonico in molti monasteri orientali.

Ma com’era dunque il mondo di Dante? Per rispondere alla questione, Patapievici ingaggia una vera e propria scorribanda attraverso le varie raffigurazioni che sono state proposte, lungo i secoli, per descrivere l’itinerario trans-mondano della Commedia (molte delle illustrazioni che corredano piacevolmente il libro, peraltro, sono opera della pittrice e miniaturista inglese Phoebe Anna Traquair, che illustrò un’edizione del poema pubblicata alla fine dell’Ottocento). Alcuni problemi, tuttavia, sorgono non appena si consideri la fedeltà delle varie rappresentazioni rispetto all’effettiva descrizione fornita dal poema.

In proposito, Patapievici sottolinea l’importanza di due grandi “rovesciamenti” spaziali che avvengono durante il percorso dantesco. Il primo accade nel momento in cui Dante e Virgilio, intersecando il centro della Terra, s’imbattono in Lucifero: benché essi «continuino a scendere, in quel dato punto essi cominciano a salire – verso l’emisfero australe, dove è collocata la montagna del Purgatorio», alla cui cima si trova il Paradiso terrestre. Il secondo rovesciamento viene invece descritto in occasione del passaggio di Dante e Beatrice dalle sfere celesti del Paradiso all’Empireo. In questo caso, «la rottura dei livelli è stata pensata come una specie di rivoltamento dello spazio: ciò che nel mondo visibile ci appariva concavo, quando vi eravamo dentro, nel mondo invisibile ci appare convesso, dato che guardiamo dall’esterno». L’immagine utilizzata è quella di un «albero capovolto, se visto dalla Terra, e diritto, se visto dall’Empireo»: è il tempo, che affonda le radici nel nono cielo e sparge le sue fronde in tutte le altre sfere celesti (Par. XXVII, 118-120). Nessuno degli schemi proposti finora, stando a Patapievici, riesce a soddisfare le intenzioni del Poeta: essi rappresentano da una parte il mondo visibile – il sistema planetario geocentrico (in realtà “diavolocentrico”, dato che al centro della Terra giace Lucifero) – e dall’altra il mondo invisibile – il sistema delle gerarchie celesti, con Dio al centro. Ma l’universo immaginato da Dante, ribatte l’autore, è uno: in altri termini, esso è assolutamente teocentrico, e non potrebbe essere diversamente, dato che Dante  si propone di mediare le concezioni cosmologiche dei greci con i principi della teologia cristiana del suo tempo.

Com’è possibile, quindi, visualizzare geometricamente un tale cosmo, mantenendo la simmetria speculare che si viene a creare tra mondo visibile e mondo invisibile, e al contempo la direzione gerarchica alto-basso, per cui ciò che sta in alto, cioè Dio, non può essere relativizzato e non può rovesciarsi nel basso? L’ipotesi avanzata è che l’immagine più adatta sia quella di un’ipersfera, ossia di una sfera a quattro dimensioni, la cui superficie consisterebbe in uno spazio tridimensionale: «Dante dice chiaramente che l’Empireo contiene in realtà tutti gli altri cieli e che nel centro assoluto del mondo sta Dio, perché nel centro del mondo non può stare il Diavolo… Se prendiamo in considerazione questi vincoli, approdiamo a una descrizione del mondo che è in realtà l’intersezione di un’ipersfera con lo spazio tridimensionale in cui vivono gli uomini».

Ne fu cosciente, il Poeta? In fondo la questione non ha troppa importanza, perché la soluzione ipotizzata qui, almeno sino ad oggi, risulterebbe l’unica in grado di soddisfare pienamente le condizioni stesse della visione dantesca. Una visione “integrale”, resa possibile da Beatrice, «che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto» (Purg. VI, 45): nell’immaginazione poetica, ella diventa in questo modo «l’ambiente, il “campo” attraverso cui si diffonde la luce tra la verità e la mente… Negli occhi di Beatrice, che la rispecchiano, Dante potrà ricevere l’intera realtà visiva del mondo invisibile».