Max Jacob, funambolo di Dio

Due anni fa il quotidiano Avvenire ebbe la cortesia di pubblicarmi un articoletto in cui ricordavo la figura di Max Jacob, a sessant’anni dalla scomparsa. Lo riporto qui di seguito, anche se oggi lo riscriverei in modo molto diverso. 

Lo seppellirono al cimitero d’Ivry, col rosario che gli trovarono in tasca, fra centinaia d’esili croci, prima di trasportarlo nell’amata Saint-Benoît-sur-Loire: e qui, da sessant’anni, riposa il corpo del poeta e pittore Max Jacob, dopo la morte avvenuta il 5 marzo del 1944 nel campo di concentramento nazista di Drancy.

Era nato nel 1876 a Quimper, in Bretagna, da una famiglia ebraica di sarti e antiquari. Compagno di stanza di Picasso, amico di Apollinaire e Jabés, figura controversa dell’estrosa Parigi bohémienne d’inizio secolo, Jacob destò scandalo con la sua conversione, fra le più stravaganti di quell’eroica stagione.

Negli stessi anni in cui Claudel, Huysmans, Péguy, Maritain e molti altri intellettuali francesi approdavano al cattolicesimo, Max Jacob fece l’esperienza di una folgorante apparizione del Cristo:

«Dopo un tranquillo lavoro alla Biblioteca Nazionale, a Parigi, me ne tornavo a casa, con una grossa busta di pelle sottobraccio piena di note e manoscritti. Ero vestito come si usava allora, con un cappello alto e la redingote. Dato che faceva caldo, non vedevo l’ora di rimettermi in libertà. Mi ero tolto il cappello e stavo per infilarmi le pantofole, da buon borghese, quando gettai un grido. Sul muro vi era l’Ospite. Caddi in ginocchio, gli occhi mi si empirono di lacrime. E subito, appena s’incontrarono con l’Essere ineffabile, mi sentii colmato solo da due parole: morire, nascere».

Furono in pochi, a prestar fede al “saltimbanco di rue Ravignan”. Il battesimo, le ripetute visioni, tutto venne colto quasi fosse un’estrema provocazione artistica, almeno fino al momento in cui il poeta non decise di ritirarsi presso una vecchia sacrestia, a Saint-Benoît-sur-Loire, in un esilio volontario rotto solo dalle poche visite degli amici.

Lontano dai rumori e dal bel mondo di Parigi, Jacob persegue una ferrea disciplina: accostarsi quotidianamente all’eucaristia, stilare una meditazione ogni mattina (secondo il modello di Francesco di Sales), nutrire una fittissima corrispondenza (fino a sei lettere al giorno), dedicarsi ad un’intensa attività letteraria e apostolica.

“Acrobata assoluto”, “funambolo di Dio”, “clown mistico”: le definizioni per la sua leggenda volatile e leggera non si contano, e hanno spesso contribuito a nascondere un’opera di valore discontinuo, ma con tratti di grande spessore (e assai poco nota, in Italia, se non fosse per qualche editore coraggioso, come Marietti e La Locusta). La sua Arte poetica, improntata a un terso classicismo, presenta ad esempio passaggi di una luminosità avvolgente.

Durante il suo viaggio verso la morte, Jacob trovò poi il tempo di scrivere le sue ultime, toccanti righe, indirizzandole a un amico sacerdote:

«Caro Signor Curato, scusate questa lettera da naufrago, scritta per la compiacenza dei gendarmi. Tengo a dirvi che sarò a Drancy fra pochissimo. Ho delle conversioni in corso. Ho fiducia in Dio e nei miei amici. Lo ringrazio del martirio che comincia. Rispettosamente e amichevolmente, Max Jacob. Non dimentico nessuno nelle mie continue preghiere.»

Se è vero che un albero si vede dai frutti, non vi dovrebbero esser dubbi sulla bontà di quell’apparizione, nel lontano settembre del 1909. Per chi non ne fosse convinto, resta l’umile testimonianza, in parole e sangue, di un poeta che giunse al martirio come ebreo e come cattolico.