Giulia Sfameni Gasparro, Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico («Biblioteca di Scienze Religiose» 171). LAS – Libreria Ateneo Salesiano, Roma 2002, 489 pp.
Giulia Sfameni Gasparro, autrice di numerosi e importanti studi sulla storia religiosa del mondo antico e tardo antico, non ha certamente bisogno di presentazioni. Dopo essersi occupata, fra l’altro, di culti misterici, di gnosticismo ed ermetismo, della tradizione origeniana e di Agostino, ci offre ora una raccolta di interventi sull’intreccio di rivelazione e salvezza nel quadro storico dei primi secoli dell’Impero, attraverso l’analisi delle tematiche di profetismo e divinazione, considerate come una sorta di baricentro ideale per lo studio delle interazioni culturali e religiose del mediterraneo antico: i nove contributi che compongono il volume Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, tutti precedentemente apparsi in raccolte collettive, sono stati sottoposti a un lavoro di riscrittura e di aggiornamento, in modo tale da conferire all’opera un respiro unitario. La tanto auspicata convergenza di prospettiva comparata e di perizia settoriale, sigillo dell’attuale rinnovamento negli studi storico-religiosi, trova dunque in questo libro un ampio terreno di prova.
Il primo capitolo, «Oracolo, divinazione, profetismo nel mondo greco-romano da Augusto alla fine del II secolo: un’introduzione al tema» (pp. 23-60), mira ad una rapida ricostruzione del fenomeno profetico-oracolare nel periodo storico preso in esame: testimone d’eccezione è Plutarco di Cheronea, che con i suoi tre dialoghi di argomento delfico (De defectu oraculorum, De E apud Delphos e De pythiae oraculis, secondo una cronologia peraltro incerta) ben rappresenta la temperie culturale dell’epoca. Sacerdote impegnato nella gestione dell’intensa attività cultuale di Delfi, ma anche filosofo e intellettuale di spicco, Plutarco dedica ampio spazio all’analisi della sfera divinatoria, in tutte le sue complesse articolazioni: dal sogno al prodigio, dalle forme mantiche, connesse a singoli operatori del divino, all’oracolo istituzionale. Interrogandosi sull’eclissi temporanea delle pratiche divinatorie fra I e II sec., egli ne registra attentamente le variabili storiche, considerando i mutamenti della situazione socio-politica e della sensibilità popolare, esemplificati nel passaggio degli oracoli della Pizia da uno stile arcaico e solenne ad uno stile prosaico e talora banale, adatto alle sempre più numerose richieste di responsi intorno a faccende di carattere privato e quotidiano. Nel quadro della pax romana, con la perdita dell’autonomia dei popoli unificati e il conseguente crollo d’interesse per la vita pubblica, la pratica divinatoria comincia infatti ad attrarre soprattutto il singolo, che in essa cerca anche un più diretto contatto con il mondo divino. Grazie alla netta ripresa del fenomeno oracolare nel corso del II sec., in un panorama composito, si affacciano allora singolari figure di maghi e ciarlatani, di indovini e di profeti itineranti, come Apollonio di Tiana, Alessandro di Abonotico ed Elio Aristide, tutti destinatari di “rivelazioni private”. Contemporaneamente sorgono nuovi centri cultuali, come quelli dedicati ad Apollo a Claros e Didima, ove la componente utilitaristica si unisce a una fame diffusa di “sacro” e ad interessi squisitamente teologici, per soddisfare «le esigenze del bios e quelle più profonde del logos» (p. 43). Il politeismo tradizionale cede lentamente il passo alle tendenze monoteistiche e allo sviluppo di quella religio mentis cui aspirano intere cerchie di intellettuali: il che condurrà, in ultima analisi, alle formulazioni teosofiche e teurgiche degli Oracoli caldaici, la raccolta di logia attribuiti a Giuliano il Caldeo su cui si eserciterà l’esegesi dei neoplatonici, da Giamblico a Proclo.
Di fatto, come ben sottolineato dall’Autrice, è proprio sul terreno delle tematiche di rivelazione che le tradizioni religiose politeistiche si incontrano con i portatori del messaggio monoteistico, nelle varianti giudaiche e cristiane. In un amalgama multietnico e multireligioso, prende forma la tradizione sibillina, oggetto d’indagine del secondo capitolo: «La Sibilla voce del dio per pagani, ebrei e cristiani: un modulo profetico al crocevia della fedi» (pp. 61-112).
La figura della Sibilla, collocabile nella sfuggente categoria degli esseri intermediari fra il divino e l’umano, compare per la prima volta in un celebre frammento attribuito da Plutarco al filosofo presocratico Eraclito di Efeso, come rappresentante della mantica ispirata, non tecnica, e in conflitto con l’attività oracolare legata ad Apollo: «Sibylla annuncia con bocca folle parole che non fanno ridere, senza ornamenti né profumi, e penetra mille anni con la voce, avvalendosi del dio» (fr. 92 DK). Nel mondo greco e romano, il termine Sibylla passa ben presto a designare, da nome proprio, un tipo oracolare. Alle numerose menzioni di una Sibilla solitaria si può affiancare pertanto la breve citazione di Aristotele, nel trentesimo trattato dei suoi Problemata Physika, tanto più significativa per il suo tentativo di un’interpretazione fisiologica delle facoltà divinatorie. Lo Stagirita parla infatti di Sibille al plurale, qualificandole come portavoci invasate della divinità, e annoverandole assieme ad altri entheoi fra i “melanconici troppo caldi”, quelli che a causa di una presenza eccessiva di pneuma nella bile sono capaci di eccedere nel bene e nel male, e possono recar danno alla vita della polis (Probl. XXX,1,35: 954 a).
Al nome della Sibilla si collega però tutta una serie di testi pseudepigrafi, gli Oracula Sybillina, composti a partire dal II sec. a.C., e ascrivibili al complesso quadro della cosiddetta letteratura apocalittica. Il III libro degli Oracoli, in particolare, composto con tutta probabilità negli ambienti colti del giudaismo alessandrino, si configura con un vero e proprio manifesto di propaganda monoteistica: in esso la Sibilla si presenta come nuora di Noè, e dallo sfondo di un’antichità pre-diluviale rivela il dipanarsi della storia umana, annunciando l’irruzione del millennio e l’avvento dell’età messianica (ed è in queste vesti che il messaggio della Sibilla sarà destinato ad ottenere gran fortuna sino al medioevo: si pensi alla fiducia nutrita da Abelardo e da Dante nei confronti della fortunata profezia sibillina contenuta nell’Ecloga IV di Virgilio).
La storia dell’assunzione della sibillistica pagana, da parte del giudaismo della diaspora prima, da parte del cristianesimo poi (con Clemente Alessandrino e Lattanzio in testa, i quali leggeranno gli Oracoli come testimonia pagani del vero Dio), risulta dunque fra i capitoli più affascinanti della storia religiosa del Mediterraneo, e dimostra l’estrema mobilità di questo paradigma profetico. Con la “moltiplicazione” delle Sibille, emerge «la nozione di una rivelazione divina inserita nel processo storico, attraverso varie figure umane che in tempi e in luoghi diversi hanno parlato per ispirazione divina. Ciò significa che il canale di comunicazione fra mondo divino e mondo umano non è limitato a un solo momento fissato in un passato quasi irraggiungibile, ma è una realtà che scandisce l’intera vicenda umana: il percorso della storia umana è attraverso da una parola divina, da una rivelazione mediata da certi personaggi ispirati, configurandosi in qualche modo l’idea di una tradizione profetica». La conclusione, rilevantissima, è che la successione profetica del tipo oracolare sibillino costituisca in un certo senso «il parametro più prossimo – all’interno del panorama divinatorio pagano – al modello profetico giudaico caratterizzato dalla riproposizione, in tempi, situazioni e luoghi diversi, di un unico messaggio religioso» (pp. 94-95).
Nel terzo capitolo, «Plutarco e la religione deifica: il dio “filosofo” e il suo esegeta» (pp. 113-148), l’attenzione è nuovamente rivolta a Plutarco. La compenetrazione armonica di due dimensioni, quella rappresentata dalla “pietà dei padri”, e quella dell’interesse propriamente filosofico, costituisce il fondamento irrinunciabile dell’esegesi plutarchea del fenomeno oracolare, come risulta evidente in tutta la Kulturkritik di questo autore. Il problema di Plutarco, e di tutta la sua epoca, giustamente definita da Guy G. Stroumsa come “civiltà dell’ermeneutica”, è infatti quello di portare a una chiara formulazione il rapporto fra indagine intellettuale e deposito delle tradizioni cultuali, o, in altri termini, fra ragione umana e sapienza divina. Nel De Iside, ad esempio, col pretesto di fornire al lettore un ritratto del “vero isiaco”, Plutarco definisce il proprio atteggiamento nei confronti del dato religioso delfico: è soltanto sulla base della prassi cultuale, secondo la triplice sequenza misterica di legomena, deiknumena e drômena (sacre formule, oggetti sacri e azioni rituali), che la ricerca razionale può procedere a buon fine, sicura di pervenire alla verità; l’umana ragione, da sola, nulla potrebbe senza il soccorso e la rivelazione del dio. In tal senso, è significativo che l’immortalità dell’anima non venga presentata da Plutarco come un puro dato dottrinale, ottenibile con la riflessione filosofica, ma come un assunto di fede, reso vincolante dalla sanzione autoritaria dell’oracolo e della tradizione.
I capitoli quarto e quinto sono invece dedicati ad altri due protagonisti del clima spirituale del II sec.: «Alessandro di Abonotico, lo “pseudo profeta”. Ovvero come costruirsi un’identità religiosa» (pp. 149-202) ed «Elio Aristide e Asclepio, un retore e il suo dio: salute del corpo e direzione spirituale» (pp. 203-253).
Del singolare caso del “profeta” Alessandro ci sono giunte notizie grazie alla penna caustica e dissacrante di Luciano di Samosata. La straordinaria operazione religiosa di Alessandro si caratterizza, a detta dell’Autrice, per l’intreccio di elementi tradizionali e di autonoma “invenzione”, secondo la «tipica tendenza degli ambienti della magia tardo-antica ad appropriarsi dei più diversi elementi dei vari contesti religiosi» (p. 153, n. 16). Alessandro riesce a far confluire in una nuova divinità oracolare, il “dolce” e serpentino Glicone, la prerogativa profetica, specifica di Apollo, e quella iatrica, specifica del dio medico Asclepio, conquistandosi il favore delle folle e guadagnando enorme popolarità, anche al di fuori dei confini micro-asiatici, come provato da numerose iscrizioni votive. L’immagine dello “pseudo-profeta” restituita da Luciano corrisponde così al noto schema tipologico del theios aner, guaritore e taumaturgo, capace di comunicare con il livello demonico e divino, ma anche e soprattutto a quella di un abilissimo “manipolatore”, in grado di organizzare un efficace battage pubblicitario: egli era «solito inviare anche in terra straniera i suoi emissari, perché diffondessero tra i popoli le notizie che riguardavano l’oracolo e raccontassero che egli prediceva il futuro, faceva catturare schiavi fuggitivi, smascherava ladri e predoni, aiutava a ritrovare tesori nascosti sotto terra, guariva i malati e aveva anche resuscitato alcune persone» (Alex. XXIV: cit. p. 179).
Grazie all’ampia documentazione fornita da Luciano, si possono delineare le tappe di una fondazione oracolare e al contempo lo sviluppo di una complessa identità religiosa, in cui l’intervento prettamente taumaturgico e medicale si accompagna a una progressiva “teologizzazione” degli oracoli. Questa duplice valenza, iatrica e teosofica, popolare e intellettuale, è presente anche nell’altra figura esaminata, quella del retore Elio Aristide, autore dei Discorsi sacri, un’originale “autobiografia onirica” (come l’ha efficacemente definita S. Nicosia) stilata durante gli anni trascorsi a Pergamo, nel tempio di Asclepio. La fisionomia di Elio Aristide, dai tratti megalomani e ipocondriaci, viene indagata nelle sue linee essenziali, in qualità di rappresentante tipico, ancorché irriducibilmente “individuale”, di una specifica sfera dell’esperienza religiosa, quella della malattia e del rapporto con divinità oracolari e guaritrici (nella fattispecie, Asclepio e Serapide) invocate per far fronte ad essa. Il tratto distintivo di una tale esperienza sembra consistere nel rapporto di intimità familiare che il devoto stabilisce personalmente con il proprio dio salvatore, attraverso la sede privilegiata della dimensione onirica, che risulta «in pari tempo elemento costitutivo della coscienza culturale di un’epoca. In essa infatti “sognatori” di tutte le estrazioni, dai seguaci dei culti tradizionali, ai membri della piccola e in gran parte dispersa nazione giudaica fino ai fedeli del nuovo messaggio universalistico cristiano, ormai presenti in tutte le regioni dell’oikoumene mediterranea, al di là delle tensioni o franche contrapposizioni, potevano incontrarsi come su un terreno comune in cui – per generale ammissione – si operava un diretto ed efficace contatto fra livello umano e divino» (p. 233). Alla sfera onirica si collega inoltre la prassi rituale dell’incubazione (conosciuta anche dai cristiani): al fedele di Asclepio veniva offerta la possibilità di soggiornare per una notte all’interno del santuario, al fine di ottenere un “sogno risanatore” che sarebbe poi stato interpretato dal personale sacro.
Il tema del “profeta” come intercessore e mediatore fra mondo umano e mondo divino costituisce un ideale trait d’union per l’argomento dei capitoli successivi, più documentari che analitici, dedicati rispettivamente a: «Daimon e Tyche nell’esperienza religiosa dell’uomo ellenistico: strutture ideologiche e pratiche cultuali» (pp. 255-301), «Iside-Fortuna: fatalismo e divinità sovrane del destino nel mondo ellenistico-romano» (pp. 303-325) e «Iside salutaris: aspetti medicali e oracolari del culto isiaco tra radici egiziane e metamorfosi ellenica» (pp. 327-342).
Nelle formulazioni tardo-ellenistiche, l’attività mantica risulta strettamente connessa con lo «scenario mobile e variegato» (p. 260) della demonologia, nelle sue tre fondamentali accezioni: teologica (il daimon come entità intermediaria fra gli dèi e gli uomini), cosmologica (il daimon come componente della struttura graduata del cosmo) e antropologica (il daimon come equivalente dell’anima). In quest’ultima accezione, il daimon risulta connesso alle nozioni di moira (destino individuale) e di tyche (sorte/fortuna). L’evoluzione del “segno” daimon in senso “personale”, e la distinzione di daimones buoni e cattivi (comune agli ambienti colti di tendenza pitagorico-platonica come pure alle credenze popolari), vengono viste come «il risultato di una riflessione sul problema del male e della teodicea» (p. 270), e inserite nel contesto dei dibattiti filosofici dell’epoca intorno alle tematiche di destino, provvidenza e libertà. Di qui lo sviluppo di figure sovrumane distinte, come l’Agathos Daimon (Buon Demone) e l’Agathe Tyche (Buona Fortuna), che rispondono alla duplice esigenza dell’uomo ellenistico di un soccorso personale e benefico e di un controllo della cieca e oscura Heimarmene, percepita come una forza astrale che tutto, fatalmente, domina. L’ambivalenza del destino si riflette in tal modo nelle metamorfosi ellenistiche di una grande divinità egizia, Iside, che in questo periodo attira devoti di tutte le estrazioni, assommando in sé gli attributi di provvidenza cosmica e di fortuna personale.
Il volume, che già da queste poche righe appare comprensibilmente ricco, si chiude con un’ampia bibliografia (pp. 377-472), preceduta da un contributo in appendice, concepito originalmente per un seminario svoltosi a Torino nel 1988 (i cui materiali sono stati pubblicati in questa stessa rivista: vd. l’intera sezione di RSLR 35 [1999], pp. 347-401): «Oracoli e profezia nel mondo greco-romano: Una discussione di D.E. Aune, Prophecy in early christianity and the ancient mediterranean world, Grand Rapids 1983, 1991² (trad. it. Brescia 1996)».
Ci riserviamo allora lo spazio, in brevità, per alcune osservazioni, prendendo spunto da quanto afferma G. Sfameni Gasparro, con grande accortezza, a proposito del necessario confronto fra le diverse declinazioni del fenomeno divinatorio e profetico nel mondo tardo-antico: «Riteniamo (…) che per la corretta comprensione del fenomeno in sé e quindi per una proficua comparazione con i fenomeni del profetismo giudaico e cristiano sia necessario procedere ad un’analisi a largo spettro delle molteplici valenze religiose, oltre che socio-culturali di esso» (p. 368).
Ciò che l’Autrice qui suggerisce, in altre parole, è il rifiuto di un approccio ingenuamente comparativo, che non tenga conto del fatto che diverse convinzioni religiose conducono inevitabilmente a diversi atteggiamenti nei confronti degli stessi fenomeni. Pertanto, riguardo alle tematiche di profetismo e divinazione, e al «terreno comune» rappresentato dalla sfera onirica, resta preferibile parlare di «convergenze», più che di semplici «influenze», fra l’ambito greco-romano e quello giudaico-cristiano (p. 344). Basti considerare che l’Asia Minore, ove operarono “uomini divini” come Alessandro di Abonotico ed Elio Aristide, fu anche il teatro d’azione di un illustre giudeo, Paolo di Tarso, la cui carriera apostolica è narrata dagli Atti degli apostoli come un susseguirsi di rivelazioni private, sogni profetici e prodigi: non a caso, dunque, fu possibile a Erwin Rohde annoverare il testo degli Atti nel catalogo dei romanzi avventurosi ellenistici (cf. E. Rohde, Der griechische Roman und seine Vorläufer, Darmstadt 1960 [I ed. Leipzig 1876], pp. 178 sgg.).
L’atteggiamento di Paolo nei confronti delle pratiche magiche attende peraltro una trattazione sistematica, che potrebbe di molto aumentare le nostre cognizioni sulla spiritualità giudaica ed ellenistica del tempo. Pur senza negare l’esistenza reale di figure intermediarie, fedele in questo al proprio retaggio farisaico e al vocabolario angelologico ereditato dal giudaismo (ma avvalendosi pure di espressioni come stoicheia tou kosmou [cf. Gal. IV,3.9; Col. II,8.20], ricorrenti nei papiri magici), l’Apostolo ne proclama il definitivo de-potenziamento per il tramite invincibile della Croce e «la straordinaria grandezza della sua potenza» (Eph. I,19). Molti brani paolini – come Col. II,24-15, ove si afferma che Dio «ha spogliato i Principati e le Potenze e ne ha fatto pubblico spettacolo, dopo aver trionfato (da thriambeuō, trascinare un prigioniero in corteo trionfale) su di loro per tramite di Cristo» – appaiono perfettamente coerenti con le ripetute narrazioni degli Atti, che riferiscono di un incontro fra l’Apostolo e un mago ebreo, a Cipro (Act. XIII,6-12), o di alcuni «esorcisti ambulanti giudei» di Efeso che invocavano il nome di Gesù per guarire gli indemoniati, a conferma del ruolo di quella città come centro di propagazione e diffusione di pratiche “occulte” nel I secolo. La conclusione del narratore è indicativa: «Non pochi di coloro che avevano esercitato le arti magiche ammucchiavano i loro libri e li bruciavano in presenza di tutti: l’ammontare del loro prezzo fu calcolato cinquantamila pezzi d’argento. Così la parola del Signore cresceva e si affermava potentemente». (Act. XIX,19-20); ove quel «potentemente» (kata kratos), però, sta ad indicare i «segni e prodigi» (semeia kai terata) che accompagnarono la diffusione stessa del cristianesimo.
La pericope finale di un vangelo si peritò d’indicarne alcuni: nel nome di Gesù i credenti «scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se avranno bevuto qualcosa di mortifero, non nuocerà loro, imporranno le mani agli ammalati e questi saranno risanati» (Mc. XVI,17-18). Con l’eccezione del veleno, tutti questi “segni” sono presenti nella biografia romanzata di Paolo, ma egualmente tutti, senz’alcuna eccezione, sono subordinati nel pensiero dell’apostolo ad un superiore principio, quello dell’amore agapico. E forse in questo consistette la peculiare “novitas christiana” che contribuì a gettare in una crisi profonda l’idea di rivelazione delle tradizioni pagane: non l’assunzione a religio ufficiale dell’Impero, quanto l’introduzione di quel che con Auerbach potremmo definire il sermo humilis, per cui l’abbondanza di rivelazioni, lo sfolgorio dei prodigi, il miraggio di una “sapienza segreta” accessibile a pochi, perderanno progressivamente il proprio valore, trasformandosi in qualcos’altro che da allora accompagna la storia dell’Occidente in sempre nuove forme.
[Recensione apparsa in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 40/3 (2004), pp. 605-609]