Nel terzo di una serie di interventi (che consiglio vivamente di leggere) sull’esortazione apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI, dedicata al tema della “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, Giovanni Bazzana si è recentemente richiamato a un articolo dello storico Kevin Spicer, docente presso lo Stonehill College di Easton, nel Massachusetts. Il contributo di Spicer, apparso in Religion Dispatches, si sofferma fra le altre cose su un’affermazione fatta dal pontefice nel suo libro-intervista Luce del mondo, in merito alle modifiche apportate alla preghiera per la conversione degli Ebrei, presente nel Rito Romano tradizionale (la cosiddetta forma “straordinaria” del Messale, erroneamente detta “Messa di san Pio V”, e liberalizzata dallo stesso Benedetto XVI con il motu proprio “Summorum Pontificum”, nel 2007).
La formula dell’orazione, che viene attualmente recitata durante la liturgia del Venerdì Santo, è stata modificata secondo il Papa «in modo tale che essa esprima la nostra fede che Cristo è il salvatore di tutti, che non ci sono due canali di salvezza, cosicché Cristo è anche il redentore degli Ebrei e non solo dei Gentili». Bazzana, in proposito, si rifà alle osservazioni del citato Spicer, e le commenta come segue:
«Spicer fa giustamente osservare che Ratzinger possiede una mente accademica, esercitata a notare sottili sfumature e distinzioni. In questo caso, il netto rifiuto di accettare la possibilità che esistano “due canali di salvezza” pare proprio un modo di rispondere ad alcuni teologi e biblisti (parte della cosiddetta New Perspective on Paul) che, negli ultimi 50 anni, hanno riletto Paolo in questo modo, arrivando a sostenere che l’apostolo dei Gentili era proprio questo, un apostolo che si rivolgeva ai soli Gentili, lasciando intatto il valore della Prima Alleanza stretta da Dio con il popolo ebraico. Non mi pronuncio sui meriti storici di tale posizione, ma mi pare chiaro che essa sia l’unica che possa onestamente evitare il supersessionismo (o anche qualcosa di peggio) cristiano nei confronti del giudaismo».
Questo commento, ferma restando tutta la mia stima per chi l’ha scritto, mi sembra decisamente problematico, e spiego subito il perché.
Tempo fa, rispondendo a un lettore, mi è capitato di scrivere (forse un po’ brutalmente) che «il problema degli studi storici sul cristianesimo delle origini è che ce ne sono ancora troppi che fanno teologia pensando di fare storia, e troppi che fanno storia pensando di dar contro a posizioni teologiche». La conclusione del post di Bazzana, a mio parere, rientra potenzialmente nel secondo di questi due casi, e costituisce un perfetto esempio di come una riflessione che intenda mantenersi su un piano rigorosamente storico possa risultare influenzata, anche in modo inconsapevole, da presupposti di natura teologica.
Il fatto che Bazzana eviti di esprimere un giudizio sui meriti della cosiddetta “New Perspective on Paul” (o per essere più precisi su un versante radicale di questa corrente studi, come quello espresso ad esempio da John Gager), e che al contempo ne dichiari il valore di unica posizione «onestamente» in grado di «evitare il supersessionismo (o anche qualcosa di peggio) cristiano nei confronti del giudaismo», è evidentemente la spia di un corto-circuito ermeneutico: e questo perché una determinata opzione storica sulle origini cristiane (che coinvolge direttamente Paolo, e la particolare posizione di Paolo nel contesto giudaico del I secolo) viene dichiarata preferibile sulla base delle conseguenze che essa potrebbe avere nel presente, anche a livello teologico (nel caso specifico, sui rapporti interreligiosi fra ebraismo e cristianesimo, qualunque cosa ciò significhi nelle attuali condizioni storiche).
L’appoggio ad alcune ipotesi di lavoro della “New Perspective”, in definitiva, rischia di essere dato in maniera incondizionata rispetto al loro reale valore storiografico, proprio perché esse risultano preferibili sul piano teologico. Così, se da un lato si rimprovera a Ratzinger di mantenere una “cattiva” teologia, e di opporsi in tal modo ai risultati degli studi storico-esegetici, dall’altro questi stessi studi vengono privilegiati non perché migliori da un punto di vista storico, ma perché maggiormente armonizzabili con una determinata visione storico-teologica (ovviamente alternativa a quella espressa dal Papa). Ma è alquanto difficile, a ben vedere, che tutto questo possa conciliarsi con l’avverbio “onestamente” impiegato da Bazzana, dato che procedere “onestamente”, da un punto di vista storico, richiederebbe innanzitutto di non voler far dire a Paolo ciò che noi preferiremmo avesse detto.
Tutto ciò diventa lampante non appena si consideri, per l’appunto, la spinosa questione del “supersessionismo”. Il termine deriva dalle polemiche religiose di età moderna, e serve ad indicare la posizione meglio nota come “teologia della sostituzione”, per cui si pensa che la Chiesa abbia definitivamente preso il posto d’Israele nel quadro della “storia della salvezza”. Questo schema teologico si basa sulla circostanza del rifiuto, da parte della maggioranza degli Ebrei che vivevano ai tempi di Paolo, di riconoscere in Gesù il Messia, e affonda le proprie radici anche nel pensiero dell’apostolo: è assolutamente necessario, soprattutto in sede storica, mettersi d’accordo su questo punto, a prescindere dalle conseguenze (talora nefaste) che una tale visione ha potuto avere nella successiva esperienza dei gruppi ebraici e cristiani in età antica, medievale e moderna – conseguenze, peraltro, per nulla calcolate o calcolabili dallo stesso Paolo.
L’apostolo, del resto, non pensava al problema del “rifiuto” di Israele in termini di “sostituzione”, ma con le categorie tipiche del proprio bagaglio culturale e delle proprie convinzioni: “resto di Israele”, “compimento”, “nuova alleanza”, eccetera. In che misura egli si ponesse o meno in linea con la predicazione storica di Gesù, è poi un problema che non è possibile affrontare in queste poche righe. Ma il succo del discorso mi pare chiaro.
Da questo punto di vista, lo splendido libro di Daniel Boyarin, A Radical Jew: Paul and the Politics of Identity, uscito nel 1994, è forse uno dei tentativi più intelligenti e stimolanti di rileggere Paolo in chiave ebraica (oltre che “post-moderna”), mantenendo intatta la particolare strategia retorica e dialettica elaborata dall’apostolo, e affrontandola nella maniera più “neutrale” possibile. Mi limito a segnalare tre punti dell’analisi di Boyarin, che ritengo particolarmente penetranti:
a) Un primo punto deriva dalla lettura di quel celebre passaggio della Seconda lettera ai Corinzi (3,7-18) in cui Paolo parla del velo di Mosè e presenta la fortunata antitesi fra lo “spirito” e la “lettera”. Boyarin, nel suo libro (p. 103), rifiuta categoricamente di seguire quei critici moderni che contestano il carattere “allegorico” e “supersessionista” del brano: «Il ministero inciso sulla pietra – scrive infatti lo studioso – rinvia al ministero dello Spirito, rivelato nella “Nuova Alleanza” (New Covenant): per Paolo, naturalmente, quest’espressione non indica un testo, una “lettera” (grámma), ma una nuova interpretazione del testo. Quando parla di “Antica Alleanza” (Old Convenant), infatti, Paolo si riferisce sia al Patto stabilito da Dio con Israele che al corpus delle Scritture ebraiche […]. E dal momento che la gloria nascosta dello Spirito, di cui si parla nel testo, appare coperta proprio dal velo di Mosè, e prefigura la vita delle prime comunità cristiane, l’intero passaggio presenta un’evidente coloritura allegorica. Paolo non vuol dire che il testo della Torah è stato abolito, ma che ad essere abolita è la sua interpretazione letterale. Il termine “lettera”, pertanto, non allude semplicemente al testo scritto, ma anche – e questo Paolo lo esprime molto chiaramente – alla comprensione “letterale” che gli Ebrei hanno di “Mosè”».
b) Un secondo punto si trova alle pp. 113-114, e riguarda la controversia che vide opporsi Pietro e Paolo ad Antiochia, descritta brevemente dalla Lettera ai Galati (2,11-14): «Nell’incidente di Antiochia – spiega Boyarin – vediamo all’opera un’altra possibile minaccia per il vangelo proclamato da Paolo, che comportava l’inclusione dei Gentili in quanto Gentili all’interno di Israele: è il problema che insorge fra Ebrei e non Ebrei, che seguono regole alimentari diverse, nel momento in cui si trovano a convivere in una stessa comunità […]. Stando al resoconto di Paolo, Pietro aveva già risolto il problema, ed era solito sedere a tavola coi non Ebrei, consumando cibi proibiti dalla Legge […]. Pietro, come osservato da H.D. Betz, “aveva le stese convinzioni di Paolo, ma non osava esprimerle apertamente”. E questo conferma la mia ipotesi, per cui Paolo non avrebbe mai accettato […] l’esistenza di due vangeli, l’uno destinato ai Giudei (che implicava la circoncisione) e l’altro destinato ai Gentili (che escludeva la circoncisione)».
c) Un terzo punto, infine, riguarda il problema della circoncisione, ed è affrontato da Boyarin alle pp. 230-231: «Interpretando la circoncisione come una realtà spirituale, e non fisica, Paolo ha consentito al giudaismo di diventare una vera e propria religione universale. Il problema non consisteva tanto nella sgradevolezza del rito – difficilmente, nelle condizioni del mondo antico, ci si sarebbe arrestati alle soglie di un culto per un tale motivo – quanto piuttosto nel fatto ch’esso rappresentava simbolicamente il momento “genetico”, “genealogico” del giudaismo, il suo carattere etnico-tribale […]. Sostituendo la pratica corporea della circoncisione con il suo significato spirituale, Paolo indicava che l’Israele ultimo e definitivo non era quello genealogico, “secondo la carne”, ma quello “secondo lo Spirito”».
Ci sono molti altri punti, nel libro di Boyarin, che meriterebbero una discussione approfondita. Ho scelto solo alcuni esempi. Non tutto è ugualmente persuasivo, nella sua ricostruzione, ma di certo non gli si potrà muovere l’accusa di scarsa “onestà intellettuale”.