«Anche Elias prende a parlare di Mozart incominciando dalla fine; ma non per contristarci con avvelenamenti, commissioni iettatorie e fosse comuni, bensì per l’impazienza di dirci in tutta franchezza la sua opinione sulla causa ultima di quella morte: Mozart, in definitiva, morì per lo svuotamento di significato della propria vita, per la perdita delle due ragioni di vita cui teneva di più, “l’amore di una donna cui affidarsi e l’amore del pubblico viennese per la sua musica”. A questo referto, morte per mancanza di amore, si accompagna poco oltre l’idea che il senso generale della musica di Mozart sia una grande “richiesta di amore”, un continuo tentativo di ottenere amore da parte di un artista che fin dall’infanzia ha sentito un incessante bisogno di essere amato. Il lato tragico dell’esistenza di Mozart è in questo centro: dopo essersi prodigato per conquistare l’amore di altri esseri umani, accorgersi che non aveva l’amore di nessuno, nemmeno di se stesso».
Così Giorgio Pestelli, nell’introduzione all’edizione italiana di Norbert Elias, Mozart. Sociologia di un genio (Il Mulino, Bologna 1991, p. 9).
È un po’ la fine del Settecento, di un Settecento. Perché ne conosco almeno tre: quello del Wilhelm Meister, quello della Nouvelle Justine e quello del Flauto Magico. Vale a dire il Settecento di Goethe, dell’uomo che rinuncia alla grazia, guidato dai saggi della Torre, per diventare utile. Il Settecento di Sade, che rinuncia all’Essere per diventare inutile, oggetto di scambio e di stupro infiniti, profeta di prostituzione universale. E il Settecento di Mozart, che non rinuncia a nulla e che desidera tutto, per diventare uomo.
L’unico dei tre che non sbocchi nel funesto Ottocento, nel furioso Novecento, nel nostro affannoso Duemila. L’unico che parta da una domanda, non da una risposta a quella domanda. «Dopo essersi prodigato…», resta per un istante solo e muto, faccia a faccia con il dono, il proprio dono, un dono donato. A un passo dall’uomo sulla Croce, verrebbe da dire.