Leggere la Bibbia senza il canone

Ripenso spesso, ultimamente, alla caustica definizione di metodo che venne data da Marshall McLuhan: è il cammino di chi non commette piccoli errori, mentre marcia verso un ben più grande inganno. Anche l’esegesi storica delle Scritture, che io difendo a spada a tratta, non è altro che un metodo, la cui stupidità dipende inevitabilmente dalla stupidità e dai limiti di chi lo utilizza. Ma è pur sempre un metodo scientifico, e che perciò obbedisce a regole verificabili, passibili di discussione e sempre migliorabili.

In linea di massima, ritengo che il lavoro dello storico – che in quanto tale non può assolutamente basarsi su presupposti di tipo confessionale – dovrebbe risultare accettabile e pienamente legittimo anche agli occhi di un credente. Quest’ultimo potrebbe richiamarsi alla dottrina patristico-medievale dei sensi delle Scritture, e alla sua distinzione tra senso letterale e senso spirituale: intendendo per “senso letterale” il significato storico del testo, un significato da cogliere secondo le coordinate del suo tempo e della sua cultura, senza applicazioni attualizzanti. Perché è questo, in effetti, ciò che l’esegesi storica si propone di ricostruire: il senso storico di un testo. Anche chi crede al carattere “ispirato” delle Scritture, pertanto, dovrebbe essere in grado di comprendere la necessità di un principio metodologico fondamentale, per questo tipo di indagine: quello che impone di scavalcare il surplus di senso che i testi biblici hanno acquisito, e continuano ad acquisire, all’interno di particolari tradizioni di fede o pensiero.

Da questo punto di vista, potremmo dunque formulare il seguente principio, applicabile a più livelli: ignorare la canonicità di un testo divenuto canonico è un diritto per lo storico, un dovere per l’eretico, un piacere per il credente e un dispiacere per il teologo. Un diritto per lo storico: perché lo storico indaga il particolare, ma quand’anche si occupasse dell’universale sarebbe insensato pretendere di limitare il suo raggio di azione secondo confini stabiliti da altri. Un dovere per l’eretico: perché la forza dell’eretico è quella di chiamare a giudizio la propria tradizione, attraverso una critica che impone necessariamente la revisione di ciò che appare acquisito. Un piacere per il credente: perché anche il credente è alla ricerca di uno spazio – più o meno critico – all’interno di una tradizione, e qualunque tradizione è conflitto e convivenza tra interpretazioni diverse. Un dispiacere per il teologo: perché compito del teologo è in fondo quello di sistemare e fare ordine, tracciando di volta in volta sempre nuovi confini per un territorio soggetto a continue riesplorazioni.